22 dicembre 2012

Lettera numero diec-i: Profumo di vittoria …



Libera uscita ad Arbroath questa mattina. Da giorni mi sento stuzzicare sul fatto che dovrei riprendere la mia professione storica. Le serate da William mi hanno reso una pseudo celebrità tra gli sfigati in questo bel borgo marittimo delle terre di Scozia dove però, piuttosto che apprezzare le rivisitazioni dei piatti locali in chiave Italian o fusion, i clienti mi chiedono a gran voce paste paste e ancora paste.

Come ogni buona prostituta di alto bordo ho accettato facendo cadere la cosa dall’alto, ma ho naturalmente inserito il risotto carnaroli e Vialone nano mantecati come bagaglio indiscutibile e irrinunciabile della nostra smisurata cultura eno-gastronomica.

Mantecatura del risotto neutro 1 in sala in forma di Parmigiano invecchiato 18 mesi, opportunamente scavato con un livello di maestria che credevo sopita da anni; grande successo di pubblico e critica. La cosa più eccitante di quel momento è stata quella datami da una scena quasi alla Truffaut a un tavolo di sole ragazze che sono progressivamente passate dal ridacchiare, al rispetto del ruolo e dell’impegno, a un timido cenno di ammiccamento di una del gruppo, visino davvero incantevole, solo un po’ troppo alta e rossa per i miei parametri. Voleremo in cielo in carne e ossa, capelli di fuoco, e non torneremo più se lo vorrai, così dimenticherò gli umori delle altre poche ma tremendamente generose donzelle incontrate sino ad ora.

Scrivo per l’ultima volta prima che alcune migliaia o forse milioni di idioti attendano mestamente la fine del mondo che coincide con il compleanno del guardiano del faro di Bell Rock. Visto che il mio secondo lavoro di scimmietta da ristorante assumerà una portata quasi professionale durante le festività Natalizie, è probabile che scriverò per l’ultima volta per questo malandato 2012.

Adesso sono realmente solo, ma se mi guardo indietro questa è la mia vita degli ultimi vent’anni. Piccoli gesti di tenerezza quasi implorata sul divano di casa mia in quel di Firenze erano solo un elegante modo di confondere l’amore con la dipendenza affettiva. Ero solo. Serate gastronomiche di buon livello dove ti ritagliano contro la tua volontà, quindici minuti di apparente gloria svaniti pochi istanti dopo, esattamente quando ti accorgi di essere una macchina da cucina e che di venire preso in considerazione solo ed esclusivamente per il fatto che produci cose discrete mantenendo tempistiche e food cost nei parametri che l’azienda ti ha fornito. Le persone ti chiedono come hai ottenuto una consistenza spumosa da del prezzemolo emulsionato mentre il loro tasso etilico sfiora l’arcobaleno e comunque, pur incontrandoli per dieci anni di fila al bar mai scenderebbero da lassù per chiederti “Ciao, come stai stronzo?”. Ero solo. Quando un giorno di circa venticinque anni fa un camionista falciò la vita dei miei genitori adottivi in una statale della provincia di Cuneo dopo essere partito dalla Slovenia senza praticamente mai fermarsi, affidando ad alcune birre il compito di tenerlo in guardia, ero solo. Solo in obitorio, solo al funerale, solo a casa, solo mentre mi tatuavano, solo in gradinata per tifare la Samp, solo in compagnia, solo al saggio di violino, solo al diploma, solo. Avete presente quando sei solo? La solitudine come mia unica compagna.

Riesco a gioire di tutto, anche di questo. La solitudine è diventata parte integrante della mia corazza di testuggine schizofrenica alla ricerca di mari nei quali diventare essa stessa un’isola aggirando, una volta per tutte, Zarathustra e le sue cazzo di isole beate. Mi eccito nel parlare con l’edicolante o con il panettiere come se questo potesse portare a uno sviluppo della mia rete sociale, e dopo aver fatto mille domande ed essendo entrato a conoscenza di incredibili verità nascoste, volto le spalle felice di non aver rivelato nulla di me se non inutili aspetti della mia non collocabile esistenza che rappresentano il mio ruolo sociale e non la mia persona. Rientrando nel negozio con un sorriso indefinibile, riguardi il negoziante e lo saluti educatamente lasciando trapelare una smorfia di condivisione di oscuri segreti dei quali solo lui e te potreste parlare nel retro bottega a bassa voce in due lingue differenti simultaneamente.

Nessuno sa come sono, nemmeno la mia Valchiria salterina che tanto mi ha dato e mi ha costruito. Nemmeno quello strano individuo che condivide con me lo specchio delle cinque e zero tre ogni mattina. Questa è la mia grande ineluttabile vittoria. Tre a zero contro il Barcellona del miglior Messi possibile. Ma che dico? Mi è apparso Rasputin in sogno dicendomi “Sei inquietante a volte”. Non ci siamo ancora!

Per la prima volta non trovo le parole adatte a descrivere il grado di eccitazione nel sentirsi libero di dire qualsiasi cosa a chiunque mantenendo un'unica espressione facciale e lasciando agli occhi il compito di conciliare l’animo delle persone facendo leva sui miei sentimenti (oggettivamente buoni).

Ho creato un mondo intorno a me nel quale inserire le briciole di pane che mi conducono a un grado di soddisfazione permanente, affittando al buon Dio un piccolo Bosco dei cento acri all’inizio del quale un malandato cartello ligneo reca una strana incisione: “Adnrew May”. (Nota 1)

Oggi tuttavia una verità sul guardiano persona la voglio rivelare, nella speranza che pochi o nessuno la vogliano leggere. La compagnia in realtà non mi manca mai e la mia è un’apparente solitudine. Parlo di mondi lontani o tempi passati raccontati dai miei vecchi francobolli, o delle emozioni che i miei autori preferiti hanno voluto cristallizzare su libri divenuti oggetti sacri. Parlo di foto sbiadite che ancora parlano di odori estivi che non torneranno più, e tremende giornate adolescenziali. Parlo della colonna sonora del mio percorso in questo angolo di universo, la musica che scalda il cuore. Parlo di giocattoli miracolosamente sopravvissuti all’orfanotrofio e gelosamente custoditi da quella parte incomprensibilmente apprensiva chiamata coscienza. E anche di film che nel cielo della mia memoria hanno lasciato una cicatrice di gioia, come velocissime stelle cadenti.
Vittoria in solitario.

 

Nota1: Si fa riferimento al bosco incantato dove vivono i personaggi di fantasia di Winnie the Pooh (Disney). In riferiemnto alla storpiatura. L'orsetto protagonista (Winnie the Pooh) vive in una casa all’entrata della quale c’è un cartello con una storpiatura del nome “Mr. Sanderz” anziché “Sanders”.

 

15 dicembre 2012

Lettera numero Nov-e: come un diamante in mezzo al cuore


COME UN DIAMANTE IN MEZZO AL CUORE…

Splendida è la vita con le sue milioni di pieghe, un libro scritto con la sabbia sul bagnasciuga in un giorno di mareggiata. Profumi, nausee e incredibili montagne russe compiute nel tentativo di essere differenti risultano alla fin fine incredibilmente identiche l’una all’altra.

Si dischiudono gli occhi e si respira profondamente ogni volta che suona la sveglia del gabbiano delle cinque in punto. Mentre fisso un punto a caso della stanza da letto e cerco di capire il titolo di un assurdo film d’avanguardia tedesco visto almeno quindici anni prima, mi ritrovo già ai posti di comando. Finito il film.

Quando ricorre un anniversario importante sono a dir poco elettrico, ogni oggetto metallico in grado di condurre elettricità lo farà, e la condurrà attraverso ogni mio poro. È una sorta di qualità, se vogliamo, un po’ come per i Fantastici Quattro, solo meno mirabolante. Un caro amico d’infanzia sostiene addirittura che una volta, mentre ci trovavamo intenti a giocare col computer a casa sua, mi levai con forza il mio maglione di lana e dal dorso della mia arsa mano infreddolita fuoriuscì un potente fulmine lungo alcuni centimetri.

Ah già, si parlava di una ricorrenza importante! Due anni di libertà incondizionata. È stato un percorso davvero pieno di ostacoli e molto articolato, ma dopo oltre 7 lustri passati in cambusa a cercare gli ingredienti per la ricetta del divenire un vero uomo, mi sono accorto che tutti i parametri con i quali avevo condotto la mia vita e la mia ricerca non erano particolarmente alti, e men che meno infallibili. La sensazione di sentirsi liberi dai giudizi altrui e dal senso di inadeguatezza che essi ci creano talvolta meritava proprio un segno sul calendario. Due anni passati fregandomene altamente di quello che chiunque potesse pensare di questo orfano esiliato.

Quando alcune tue certezze si sgretolano come cacca secca di mucca pestata in quegli aridi campi estivi in piena campagna toscana o, perché no, umbra, ci si sente deboli e insicuri.

Le persone con le quali fino a ieri probabilmente litigavi e che erano al centro dei tuoi deliri di onnipotenza distruttiva, non esistono più perché si sono perfettamente amalgamate alle altre creature: mondo.

Vi siete mai trovati a disagio? Siete mai stati messi in profondo imbarazzo da un indice puntato? Qualcuno ha mai sostenuto cose terribilmente odiose e fottutamente vere sul vostro conto? Non basta, cari ragazzi.

Cresci pensando che i veri uomini siano (im)probabili avventurieri con la gamba di legno strappata magari da un pescecane distratto nel famigerato Mar dei Sargassi, e poi ti svegli un giorno alla soglia dei quarant’anni con la certezza che la vera impresa eccezionale, come sosteneva lo splendido Lucio Dalla, è “essere normale”.

Vivi situazioni apparentemente insostenibili per alcuni mesi, e a distanza di alcuni giorni dal vissuto nemmeno ti ricordi quale cosa avesse potuto scatenare il tuo malessere. Un rigurgito di debolezza, tutto qui.

È bello sentirsi fintamente slegati dal mondo potendovi accedere in qualsiasi momento con un semplice click e potersi poi vantare dell’essere un cane sciolto. La banalità ha un gusto del tutto diverso in bocca quando la camuffi con una presunta brillantezza.

Notti insonni, incredibili fibrillazioni sonore mi hanno sempre permesso di poter coltivare le mie passioni mantenendo una parvenza di vita sociale e lavorativa normale; sono fottutamente felice di essere qui nel mio faro a scrivere a Mr. Nessuno in qualsiasi parte del mondo: vorrei conoscere il mandarino per poterlo dire ad oltre un miliardo di persone, ma mi accontento di un paio di amici che ogni tanto si ricordano del May con un comodo pollice alzato.

Sono certo che il mio cuore stia covando qualcosa ma non conosco il suo linguaggio, sebbene ne percepisca i sussulti che sono quasi sempre un preludio al cambiamento, allo slancio verso piccoli giganteschi traguardi.

La fede ha conquistato a piccoli passi tutto me stesso, e sarebbe superfluo  intavolare un discorso filosofico a riguardo: sono giunto a una interpretazione intesa come miglioramento. Credere in qualcosa ci spinge comunque a piccole tappe intermedie in quel viaggio chiamato vita che è un dono incredibile, tanto da commuovermi. Ho visto un amico piangere un giorno durante un temporale che ci aveva sorpreso in una tiepida estate di alcuni anni fa in occasione di una rimpatriata tra chef di cucina.

Lì per lì pensai alla famosa strofa de Il bombarolo di De André, ma guardandomi negli occhi il mio amico (Vale) mi disse che era felice che esistesse la pioggia e che l’acqua fosse una specie di reset della natura: una semplice manifestazione di quanto Dio (o chi per lui) fosse stato così grandioso da ricordarci la sua magnificenza con un semplice tocco d’artista. L’odore della natura dopo pochi minuti ci avvolse in un abbraccio che ci zittì e rimanemmo di pietra ad ammirare il mare nostro in abito grigio con la pace nel cuore.

L’elettricità svanisce con il grigio, si torna ad essere un comune individuo e si chiudono gli occhi.

Vita…

 

 

 

28 novembre 2012

Lettera numero ott-o: Il mondo è piccolo, il mondo è grande...


Vasile ha 54 anni ed è un distinto signore romeno che abita in un elegante quartiere di Cluj Napoca non lontano da una delle importanti sedi universitaria della bella città della Transilvania.
Vasile è un avvocato molto bravo ed impegnato anche nel sociale ed è un supporter del Chelsea per via del fatto che suo nonno emigrò in Inghilterra oltre 100 anni fa e venne assunto come stalliere per un ex giocatore del club londinese divenendone anche grande amico.

A vent’anni il giovane protagonista,come la stragrande maggioranza dei rumeni, lottava per mangiare. Il caro Ceauşescu  infatti decise di voler pagare il forte indebitamento del suo paese verso l’ estero attraverso la vendita dei prodotti alimentari affamando di fatto il proprio popolo.

Il giovane studente di giurisprudenza credeva in questo progetto assurdo come molti connazionali al punto tale che con grandissima fatica, riuscirono nell’intento pochi mesi prima che il dittatore rumeno cadde.
Vasile lavorava sodo per mantenere gli studi ed aiutare la giovane madre vedova con altri quattro fratelli: di notte passava tre ore dal fornaio dove riusciva a rubare qualche panino e ricevere pochi LEI   poi era la volta del muratore e successivamente dell’avvocato dal quale rubava il mestiere e diverse ore di sonno arenato sulla macchina ciclostile. Il peggior ricordo di quel periodo era proprio la fame e la paura di non procurare abbastanza cibo per i suoi fratelli e sorelle più piccole.

Ogni martedì mattina Vasile non rinuncia ad una passeggiata più lunga con il suo cagnolino bastardino Pinko  lungo il Parco Aurel Vlaicu per poi far l’ora di pranzo perdendosi a guardare le migliaia di bei cibi nazionali nel mercato di IRA e si sente fortunato nel poter acquistare ciò che desidera per cena in compagnia dei suoi  due figli che lo vengono a trovare ogni volta che gioca il Chelsea.  
La cosa che però Vasile fa con più piacere è collezionare francobolli , lettere e documenti. Segue una tematica molto difficile e particolare: zoologia aereospaziale. Raccoglie insomma documenti vari con tutti gli animali che l’uomo ha mandato sullo spazio per un lungo viaggio senza ritorno. Senza ritorno grazie al cielo, saranno anche quei difficili momenti da bravo ragazzo che si sforzava di credere in un assurdo progetto di un megalomane così tanto convinto di essere amato dal proprio popolo che finì per essere isolato dagli altri leader comunisti , deposto e giustiziato .  Sembra passato un secolo ma sono appena 23 anni e mentre il nostro avvocato sistema i suoi bei francobolli e le sue "buste primo giornoarchivia probabilmente un epoca.

 
Che splendida giornata oggi a Wellington, un perfetto novembre per portare i pargoli in giro per uno dei moltissimi spazi pubblici della ridente città neozelandese. Non è un caso che Mary Elisabeth 42 anni madre di due splendidi bimbi di 13 e 6 anni, abbia deciso di passeggiare portandoli al “Hobbit Artisan Market”, l’attrazione messa in piedi dall’assessorato al turismo per dare l’opportunità a molti artigiani di creare e vendere i propri oggetti artigianali interamente ispirati alla trilogia Tolkeniana  diretta dal meticoloso Peter Jackson .

La vita adesso scorre tranquilla per la solare Mary Elisabeth che guarda incantata i suoi prodigi mentre si fanno ipnotizzare da un mago ritrattista e la sua scimmietta che provvede a rifornire il “maestro” dei colori necessari senza sbagliarne uno! Davvero incantevole. Naturalmente in ogni fiaba c’è una strega cattiva ma nella realtà non sempre c’è un principe azzurro. Una delle ultime volte che Mary venne pestata a sangue dal suo ex-marito era incinta di Tommy ed il povero Jason di quasi 7 anni,terrorizzato, si nascondeva dietro la grande libreria dove la sua mamma profumata teneva, oltre ai molti libri ereditati dal nonno marinaio, decine di raccoglitori pieni di francobolli antichi e davvero ben  curati dall’anziano marittimo.

Splendide pagine di antichi Commonwealth con alcune lettere di valore viaggiate da Isole Mauritius , Barbados e Sud Africa. E che dire di quello splendido frammento delle Hawaii con una coppia di “missionari”  in uno dei primissimi giorni di emissione.                                              Eccezion fatta per quest’ultima emissione così chiamata proprio perché utilizzata dai missionari cristiani d’istanza nello splendido paradiso terrestre chiamato con il nome di uno dei tipi di lava che uno dei suoi vulcani non smette di produrre, le altre rarità filateliche isolane erano state spedite con molte probabilità da vecchi marinai in stile film sui pirati.
Un giorno mentre la strega cattiva Charles eruttava violenza ed odio verso la propria dolce metà decise che le sue nocche non si sarebbero sporcate con il sangue della povera Mary ma si sarebbero accanite contro quella parete di libri e ricordi: un pezzo di storia intrisa di legami affettivi e dolci ricordi del vecchio nonno tremendamente buono ed incredibilmente rugoso come un coccodrillo. Charles infatti decise di prendere tutti quei bei libri e raccoglitori di francobolli di accatastarli in giardino per farne un bel falò: il grandissimo bastardo non sapeva che fu proprio quella l’ultima volta che avrebbe fatto male a sua moglie ed ai suoi figli.

Si perché Mary Elisabeth amava leggere le fiabe al piccolo Jason e quando le fiabe “si ripetevano spesso” era solita prendere uno di quei raccoglitori di francobolli e mostrando al piccolo quegli strani pezzettini di carta vecchia, inventava storie bellissime ambientate in quei posti esotici dai quali provenivano. Erano storie di pirati e di bucanieri, di saltimbanco ma anche storie di epici marinai inglesi dal volto tumefatto dal vento e dal sole. Jason era incantato mentre la dolce madre viaggiava in mondi mai esistiti, o forse si. Ascoltava la voce come fosse musica ed accarezzava quelle vecchie lettere come volesse percepirne le vibrazioni ad esse legate o forse per immaginare il bisnonno marinaio che cantava canzoni incomprensibili  al timone di velieri straordinari con infiniti alberi e sempre pronti a respingere i marinai malvagi che tentavano di impossessarsi del prezioso carico della nave.  Quel giorno Charles Edeltown fu così meschino da voler distruggere la propria compagna nel suo immaginario, in quello scampolo di felicità che si ritagliava sul divano con il proprio bimbo ed accarezzava il secondo non troppo al sicuro nella panciona tonda tonda.
Quello fu troppo. Il resto è cronaca triste cui seguì un arresto ed un incriminazione per molti anni ed una interdizione severissima per proteggere quella famiglia a metà fortemente unità dall’amore ed umiliata dal troppo dolore.

Sono passati già 5 anni e Mary Elisabeth madre single tira avanti la famiglia con fatica e l’aiuto di alcuni vicini di casa ma ogni mese riserva un piccolo budget per acquistare qualche francobollo di posti strani per poter riprendere la sua tradizione narrativa con il figlioletto minore Tommy che porta il nome del suo nonno marinaio. Niente di raro e vissuto, si capisce, ma assolutamente idoneo allo scopo. Jason dodicenne gioca alla console, ma quando la mamma si mette sul divano con un raccoglitore in mano è felice perché sa che in quelle storie non ci sono streghe cattive che possono far del male a lui o al piccolo fratello. Tommy di suo padre sa poco o nulla  e forse lo immagina come una specie di marinaio che vive in uno di quegli strani bellissimi posti di cui sente tanto parlare.


 Un mondo fatato fatto di incantevoli boschi di conifere punteggiati da un tema pois di bacche selvatiche che il buon Dio si è divertito a dipingere nella pausa domenicale, con molta probabilità, verso l’ora del te.
Se vi trovaste per caso in questa splendida zona del sud della provincia di Manitoba nel Canada centrale e non sapreste minimamente orientarvi, non vi chiamereste Arthur e non sareste nipote di un valente artigiano del legno austriaco emigrato qui circa settantenni fa. Dico questo perché Arthur che di mestiere fa il postino e da tutti conosciuto come “Arthur il postino”, conosce a menadito questi enormi spazi intorno alla sua abitazione fiabesca costruita ed intagliata con maestria rinascimentale dall’omonimo nonno.

Arthur ha quaranta anni da oltre quattro decenni, compie gli anni puntualissimo lo stesso giorno e dedica tutta la restante parte dell’anno ad invecchiare pensando che prima o poi arriverà quel giorno nel quale ricomincerà il conteggio.
Il postino federale canadese Arthur Hertzinger matricola CA1267 MA-112 è un architetto della fantasia perché ama fantasticare su tutto e tutti creando scacchiere di parole e vicende di pedine degne del miglior Bartezzaghi  .

 Da tre anni il nostro postino frequenta uno dei centri per l’integrazione del suo piccolo paese St . Clements  perché ama conoscere storie, vicende e tradizioni di molti immigrati da tutte le parti del mondo: un orgoglio per la ragione del Manitoba. Forse non tutti sanno infatti che la provincia  del Manitoba ha finalmente abbandonato il suo posto di cenerentola delle province canadesi per ricchezza prodotta e qualità della vita (comunque molto elevata) grazie ad una incredibile e lungimirante  politica di integrazione controllata e partecipativa che porta avanti da circa 20 anni: un esempio emblematico e virtuoso di capitalizzazione della solidarietà e della integrazione.
Torniamo al postino adesso . Arthur ama in particolare le fiabe per bimbi che ama anche scrivere per diletto. Ma ama maggiormente quando se le fa raccontare direttamente dai molti figli che gli immigrati africani od asiatici, portano con se dai loro lontani paesi. Il sig. Hertzinger inoltre è da sempre un collezionista di francobolli e ha contagiato con la sua mania molti di questi bimbi apprendisti canadesi grazie a diversi regalini filatelici.

Ogni volta che porta la corrispondenza in giro per i pochi abitanti disseminati in un ampio raggio, Arthur chiede ai rispettivi destinatari di conservargli i francobolli arrivati da ogni parte del mondo per poterli regalare ai suoi allievi collezionisti al centro per l’integrazione.

Una splendida bimba africana originaria del Kenya , Pulliam , regala sempre dei bellissimi disegni per Arthur con delle dediche bellissime, nell’ultimo di questi piccoli capolavori ha disegnato un postino bianco bianco che portava dei regali ad una principessa color marroncino con folte trecce nere. La dedica diceva:
“Caro babbo Natale fammi trasformare in una lettera così il postino Arthur mi regala i francobolli e mi spedisce in Kenya dove gioco sempre con la mia nonna Arawi che mi vuole tanto bene e che non vedo più da tanto tempo. Ti prometto sarò bravissima “  

 

 

22 novembre 2012

Lettera numero sett-e: GHESS & WILLIAM, FALLIMENTI e MALAPOLITICA…..

Quando ero piccolo avevo due amici immaginari che si chiamavano Ghess e William. Vivevo in un orfanotrofio gestito da suore alle porte di Milano e la mia vita scorreva come in una puntata di un moderno programma per bimbi.

Questi due incorruttibili amici mi aiutavano in tutto ed assistevano impotenti ad ogni mia piccola mossa: monellata o bel gesto che fosse.

Mi ricordo che commentavano ogni stupidata ed io ero molto polemico con loro e molto spesso gli ricordavo chi fosse a comandare in quel teatrino.

Quando ne combinavo una grossa però li ascoltavo: mi rimproveravano tentando di spiegarmi perché da un brutto gesto avevo ottenuto una reazione negativa. Ebbi a che fare per le prime volte con una parola che poi ha accompagnato il film della mia vita molte volte e cioè fallimento.

Nella nostra cultura (ed ancor più in quella nipponica) il fallimento è un onta indelebile che dovrebbe gettare nello sconforto ed in una situazione psicologica punitiva chi lo compie ma francamente non lo capisco.

Sono finito qui nel più antico faro di tutto il Regno Unito proprio per un mio ennesimo fallimento e ne sono felice, o perlomeno inizio a covare quell’insoddisfazione che si rivela un preludio di una nuova fase. Diciamo che è una sorta di anticamera della felicità.

Tutti gli errori ed i piccoli fallimenti fatti in realtà, ci hanno permesso di diventare persone più o meno fragili ma sostanzialmente cresciute. Un caro amico dopo oltre 20 anni di matrimonio mi ha comunicato della sua imminente separazione come fosse un amputazione ma non credo sia così francamente. Credo sarà lui a determinare un eventuale rinascita e gli ho suggerito se così fosse, l’effetto Zanardi.

Dovremmo iniziare a rivalutare e reintegrare la parola fallimento in senso positivo. All’età di quattro o cinque anni, disubbidendo ad un ordine della dolcissima Suor Anna, decisi di saltare giù dal letto a castello. Mi ruppi tre denti ed ancora adesso potrei descrivervi perfettamente il tremendo rumore di osso spezzato del dente sul freddo pavimento di marmo rosso e giallo stile anni ’30 ed il sapore del sangue caldo in bocca tra le urla generali. Sapeste Ghess e William quante me ne hanno dette? Erano furiosi!

Qui nel faro non ci sono Ghess e William ma credo di non averne bisogno (io), perchè mi ricordo perfettamente molti dei miei fallimenti e tutti mi hanno portato ad una conseguenza negativa immediata. Un ode a chi ha dovuto mangiare un po’ di pane e cipolla consapevole di essere lui l’artefice di quel salto. Un abbraccio a chi ha odiato il telefono nel domandarsi se fosse la banca o l’amico generoso che chiamavano non certo per gli auguri di Natale. Un plauso a chi ha dovuto accettare situazioni sgradevoli per anni vivendo con la molletta al naso: abbiamo molto in comune amici miei. La prima volta che andai ad abitare da solo mi feci prestare dei soldi da un amico e dormii un paio di mesi senza luce, gas, acqua calda e riscaldamento. Scroccavo la doccia a turno dai colleghi ed in cambio offrivo loro la colazione e di sera dormivo con una giacca da metallaro addosso, non tanto per il caldo quanto per il valore affettivo legato a molti concerti in giro per l’Italia.

Chi non ha mai assaggiato la sconfitta o pagato per i propri errori non può dire di aver vissuto a pieno la propria vita e se ancora non lo ha fatto gli consiglio di provare anche se avesse 60 anni. Nel farlo scoprireste anche parole come umiltà ed orgoglio che se ben dosati riescono ad aiutarci molto tra un fallimento e l’altro.

Forse è proprio questo uno dei motivi per cui anche qui dalla Scozia tendo a detestare molti nostri politici, perché penso che alcuni di loro abbiano sempre lasciato il conto da pagare ad altri. Chissà chi?

Sono stufo ed anche un po’ schifato del fatto che nessun intellettuale e nessun organo ufficiale non prenda una posizione contro un modo unilaterale e utilitaristico di gestire la cosa pubblica, ma è la storia del mondo forse ed io sono un ingenuo di quasi quarant’anni. I sogni di milioni di famiglie, di aziende e di persone sono controllate da banche pubbliche o private che hanno perso totalmente il senso del proprio ruolo divenendo di fatto soggetti che speculano con soldi pubblici. Così eteree, così lontane e così slegate dalla vita delle persone. Sembra un film di Terry Gilliam in stile Brazil.

Questa crisi che le banche stesse e la finanza hanno creato dando a noi il conto da pagare ha coniato una parola nuova: economia reale. Ma perché fino adesso il circuito nel quale agivamo era virtuale? Naturalmente parlo da ignorante  e sono certo stia scrivendo un sacco di fregnacce, ma quando ho delle sensazioni come quelle che ho adesso è certo che qualcosa non quadri.

Molti di questi luminari che ha occupato i gangli vitali d’ Europa e d’Italia, ha sempre condotto una vita agiatissima e privilegiata senza  probabilmente mai pagare per gli inevitabili errori che chiunque commette nell’esercizio delle proprie funzioni. Si permettono di chiamare “capricciosi” i ragazzi molti dei quali laureati con il massimo dei voti ed il minimo dello stipendio sindacale e privo di contributi, mentre dimenticano che i loro rampolli coscritti degli “sfortunati” già guidano aziende pubbliche non certo per meriti sul campo e a condizioni a dir poco invidiabili.
La loro arroganza e la loro supponenza è tale che decidono della vita altrui senza
nemmeno pensare alle minime conseguenze ma verificando libri o studi di settore e considerando di fatto i numeri più importanti delle persone. Un’azienda fattura due milioni di euro l’anno ma deve cinquanta mila euro alla banca: insolvente iscritto nel registro dei debitori. Ma fare il proprio lavoro no?

Nei loro castelli d’avorio legiferano su materie come l’agricoltura per esempio, senza annoverare tra i propri superpagati consulenti un contadino: populismo? E chi se ne frega! Se devo imparare a fare del vino vado da un viticultore ed un enologo a farmi insegnare; il fatto che prenda in mano un libro poi, non può che aiutarmi.

Se anche queste mediocri persone al posto di comando avessero avuto due amici immaginari severi o per lo meno avessero pagato anche solo una volta per un loro fallimento, probabilmente non scriverei da un faro in mezzo ad un meraviglioso nulla e magari non mi ricorderei di Ghess e William…

“Il telefono squilla minaccioso signori; le cipolle sono servite sul tavolo  gentili commensali ed è ora di mangiare: levatevi la molletta dal naso altrimenti non sentirete il profumo della vita” disse il maggiordomo.

Auguro a tutti di fallire e riprendere in mano la propria vita: non sarà un letto di rose forse, ma è un esercizio che sveglia le coscienze e aiuta a specchiarsi ogni mattina.

 

14 novembre 2012

Lettera numero se-i:
Scherza con il fuoco ma non scherzare col cuoco...
L’altroieri sera mi ha telefonato via Skype Francesco, un mio caro amico chef di cucina con il quale ho lavorato due anni. All’epoca eravamo due chef de partie di 25 anni con il mondo nelle mani. Diversi anni dopo ci eravamo chiamati reciprocamente per organizzare alcune serate slow food in varie province nelle quali lavoravamo. Le serate erano state tutte splendide e sempre finite a whisky o vino rosso.
Ho sempre avuto un grande rispetto di Francesco come cuoco anche se è totalmente diverso dal mio IO cuciniere. Lui: istintivo, geniale, improvvisatore perfetto, viveur, donnaiolo, faccia come il culo e simpatico. Io: NO, con aggiunta di “sfigato”.
Mi ha cercato per un’offerta di lavoro e quando gli ho detto che ero chiuso in un faro a undici miglia dalle coste scozzesi ha pensato lo stessi prendendo per i fondelli, e in effetti come dargli torto.
Ironia della sorte: tre sere prima William, noto ristoratore di Arbroath, mi ha chiamato per una serata gastronomica nel suo locale. L’idea era quella di avere uno chef italiano “special guest”, sperando che io fossi in grado di mettere su pranzo con cena.
Ho dato un’occhiata alla carta di questo bel ristorante che basa la sua cucina su carni e pesci locali,  qualche tradizionale zuppa scozzese, e ottimi dolci. Non farò pubblicità ma la parola “grill” nel nome del locale potrebbe essere fuorviante: siamo di fronte a un ristoratore vero con una solidità nel prodotto e nel servizio che gli fanno meritare di essere considerato uno dei migliori locali di tutta la zona.
Rivisitando al volo il suo menù in pochi minuti, ho deciso di proporre:
 antipasto di eglefino affumicato su insalatina di germogli, violette e cipolle rosse caramellate (1)
pacchero con salmone selvaggio, cozze locali, piselli secchi ed erbette selvatiche (2)
mince and tatties all’italiana  accompagnato da patata in crocchetta alla maggiorana (3)
Dundee cake con gelato al whisky e scagliette di fondente al 72% (4)
Ho tradito il faro ancora una volta, ma i trenta commensali invitati per l’evento erano a dir poco in visibilio. Ieri William mi ha offerto uno splendido tè alle 17 in punto per ringraziarmi per il lavoro (non retribuito perché fatto davvero con passione ed amicizia), e per offrirmi un posto presso il suo prestigioso locale come chef con carta bianca. Al mio rifiuto e al suo sbigottimento, la domanda è stata la stessa rivoltami dall’amico chef Francesco: «Perché cavolo hai smesso di fare il cuoco e ti sei chiuso in un convento a forma di faro?»
Bene! A loro ho detto solo che avevo bisogno di cambiare aria, stile anno sabbatico, ma adesso ho voglia di scrivere il vero motivo così da pagare il mio tributo d’inchiostro anche oggi.
1. Sono stanco di lavorare per persone che in corso d’opera decidono di ridurti lo stipendio colpevolizzando la crisi e poi comprano per il proprio compleanno una Porsche Boxster S o un diamante da 5,3 carati per la loro dolce metà che spesso allieta le nostre eterne giornate di cucina con idee davvero idiote quando non volutamente indisponenti.
2. Sono stufo di sentir parlare ai colloqui di qualità del cibo per poi dover stare su dei food cost da ospedale.
3. Sono già deluso alle 8:45 del mattino quando lavori per persone che pensano che il buongiorno che hai appena pronunciato sia una tradizione Swahili o aborigena ma comunque non italiana.
4. Sono  esterrefatto quando fai una stagione di 5 mesi tirati andando a lavorare con la febbre a 38 e 7 per un titolare razzista e sessista che ti rompe le palle tutto il tempo e dopo un anno scopri che non ti ha pagato i contributi e ha fatto fallire l’azienda sulla quale non puoi più rivalerti.
5. Sono stanco di dover essere contattato telefonicamente per lavorare chissà dove, dopo aver inviato CV, referenze e foto piatti, sentendomi chiedere come prima cosa: «Scusi, lei quanto prende?» Sarebbe forse meglio chiedessero quanto pensi di valere, poi prova pure e se quel che dici è vero e sposi il nostro progetto, sei dei nostri, figliolo!
6. Sono nauseato nel leggere annunci del tipo «Cerco chef finito max 25enne per importante lavoro a progetto», perché l’unico “progetto” che percepisco è quello di uno pseudo-ristoratore che vuol  sfruttare oltre misura un bravo ragazzo che per questioni anagrafiche difficilmente avrà l’esperienza per essere chef finito.
7. Sono stanco di perdere mesi della mia vita per ristoranti italiani all’estero che d’italiano non hanno nulla, per essere poi cacciato in malo modo dal giorno alla notte perché ho detto che il forno trivalente non aveva lo scarico per l’acqua e la cosa non è stata gradita dal general manager che l’ha vissuta come un modo di far vanto delle mie conoscenze tecniche allo scopo di umiliarla.
8. Sono inebetito quando inviando un curriculum il 99% delle aziende non ha previsto una risposta automatica del tipo: «Riceviamo moltissimi curricula per questa posizione e non siamo in grado materialmente di rispondere a tutti, per cui se fossimo interessati al suo profilo la contatteremo nel giro di una settimana. Cordialmente, XYZ».
Per pietà cristiana mi fermo qui e ringrazio il cielo se prima di scappare dal Bel Paese ho incrociato nel mio cammino delle ottime aziende di ristorazione: mosche bianche, naturalmente. Il mondo dei ristoranti e degli alberghi è abitato da una strana fauna, per cui anche nelle fila di chi ne fa parte si trovano esemplari a dir poco nocivi; ma questo mestiere è per chi lo ama. Per quelli che, come me, per tanti anni hanno dedicato gratuitamente pomeriggi o tarde serate a confezionare tortelloni, sperimentare decorazioni, saltando i pasti dopo 14 ore filate in piedi. Esiste una sola parola per questo ed è “passione”: per il cibo e per l’artigianato del bien vivre.
E piuttosto che vivere male la cucina, ho deciso di portarmi il suo ricordo in queste fredde acque e d’ora in poi cucinerò con amore solo con e per gli amici e sarò libero di dire: l’ho fatto come è giusto che io lo facessi, come mi ha detto il cuore, adesso siediti, mangia, e godi di questo cibo e di questa atmosfera che abbiamo costruito con grande fatica.
NOTA 1: l’eglefino è un pesce molto simile al merluzzo che viene pescato ed affumicato proprio in questa zona della Scozia. Il suo sapore forte ed intenso, si sposa perfettamente con il dolce della cipolla ed è alleggerito dall’insalatina di germogli.
NOTA 2: In questo caso la pasta trafilata a bronzo è in grado di assorbire molto condimento e l’insieme di sapori di mare e di campo fanno il resto.
NOTA 3: Uno dei piatti di carne più popolari è anche uno dei più semplici: mince and tatties, carne trita di manzo stufata, servita con purè di patate. Per questo piatto ho pensato di cuocere uno stracotto per poi sfilacciarlo e servirlo come variante della specialità scozzese. Ho sostituito il purè con delle crocchette di patate con una sorprendente maggiorana locale.
NOTA 4: La Dundee cake invece è una specialità più da colazione che da cena; tuttavia servita con un gelato al whisky ed un cioccolato di copertura molto amaro è assolutamente degnissima di essere consumata anche a cena

06 novembre 2012


Lettera numero cinqu-e:
Nella mia ora di libertà – Cazzeggio e riflessione

  Questa mattina sono a passeggio per Arbroath perché ho vinto una pseudo-gara di cucina con Mrs. Rachel, la guardia di confine bulgara travestita da segretaria del sindaco. Suo marito farà le mie veci nella mia casetta con punta luminosa per tutto il giorno, ma non ho intenzione di stare a menarmela in città. Ho sempre avuto grande coerenza nelle mie scelte merdose e non la smetterò certamente qui in terra di Scozia. Non racconterò della tenzone culinaria perché mi sembra di vantarmi di aver battuto un bimbo a braccio di ferro. E dire che la mia zuppa di farro era assolutamente anonima e priva di cuore, ma Rachel è veramente una pippa con le zuppe.

 Intanto per strada osservo la rara fauna locale, la figa stallo Aberdeen. Taglio alto, muscolatura possente e struttura importante. Sono strane queste ragazze perché in Italia con questa compattezza potrebbero fare le buttafuori in qualsiasi locale truzzo, o perlomeno irrobustire le file degli ultras in curva sezione “irriducibili”. Eppure alcune hanno dei visi angelici in un corpo decisamente vichingo che stride con alcuni pensieri maschili che non posso rivelare in quanto secretati.

 Se ad ottobre inoltrato la temperatura del mattino è questa, penso che a dicembre o gennaio mi faccio crescere la barba e per tagliarla la spezzo piuttosto che usare il rasoio. Quello serio, da barbiere italiano “Little Italy” naturalmente; spacchi la lametta che devi inserire perfettamente, ed evita di starnutire mentre ti radi onde evitare un graffio Livello 5 (la decapitazione, per intenderci). (1)

 Ho un carissimo amico che da oramai dieci/quindici anni vive e lavora in Edimburgo; chissà cosa direbbe se sapesse che sono qui, bello come il sole, a respirare fluidi salmastri in questo piccolo paesone dove tutti mi guardano non proprio come un alieno ma quantomeno come un caso clinico. Forse un giorno lo andrò a trovare e scriverò la lettera Gita ad Edimburgo.

 Alcuni signori anziani incontrati in un pub, dove alle nove e tre quarti del mattino si sono già vendute birre e whisky sufficienti a risanare il bilancio del comune di Parma, mi hanno abbracciato con fare affettuoso e mi hanno offerto un buon distillato parlando in… non so, gaelico? Non ho capito nulla ma ho sorriso e mestamente ubriaco mi sono diretto all’uscita. Il tutto è durato tipo sette minuti.

 Sogno un cappuccino con schiuma seria (bolle d’aria tonde) ed un cornetto fatto da valente italico fornaio con base di pasta madre, ma mi accontento di entrare in un locale dove con gentilezza e poca poesia mi servono una tisana e una “scrumble pie”: una specie di torta sbrisolona con farine integrali. Il gusto è vagamente accettabile, mentre sulla consistenza credo si possa mettere in soluzione di sciroppo 1:1 e fecola (2) per ottenere una splendida alternativa alla colla da piastrelle al quarzo. Quella Kerakoll, non stupide sottomarche, eh.

 Mi accorgo da questi miei pensieri criticoni e tendenzialmente stronzi di essermi alzato con le mestruazioni, e allora spengo la lanterna rossa, prendo il mio bloc notes verde e la mia Bic blu e scrivo, da questo tavolo marrone, un qualcosa che possa non solo cambiare una grigia e uggiosa giornata ottobrina, ma anche l’epilogo del mio pensiero quotidiano in un colore quanto più possibilmente vicino all’azzurro.

 Mi guardo intorno e prendo un quotidiano locale che in prima pagina pubblica una gigantesca foto di un uomo, presumibilmente importante, ammanettato da due poliziotti nel gesto di farlo “accomodare” in un furgoncino della polizia. Perché allora non indossare la maschera della persona semiseria e magari dedicare il pensiero di oggi alla parola LIBERTÁ, levandomi così il debito che ho contratto con la mia coscienza prima di partire. Sono imbarazzato perché sono certo non troverò le parole giuste per rendere onore a questo splendido concetto, e l’unica magra consolazione è quella di dedicarle a chi la libertà la vive da dentro un carcere. Pagare è sacrosanto, e anche duramente. Costringere migliaia di persone in posti angusti concepiti cento anni fa per un terzo degli attuali residenti no. Non parlo di utilità della deterrenza e non scomodo Beccaria, anche perché emotivamente parlo di dignità, igiene, e istigazione al suicidio.


 Quando l’amore riesce a prevalere sul nostro individualismo, sulle nostre parole e sui nostri comportamenti egoistici, allora siamo in presenza di libertà.
Se invece andando a letto ti circonda un vuoto assordante e fissi il soffitto pensando che tra ventiquattr’ore ripenserai alle stesse cose fomentando involontariamente il tuo senso di inadeguatezza, non sei libero.

La cosa crudelmente splendida della libertà è che in realtà esiste per tutto e tutti, ma spetta ad ognuno volerla abbracciare; e non importa se sei chiuso in un carcere o sei il campione del mondo di navigazione in solitario su kajak.

Ti  sei chiuso in una prigione di acqua, mi ha detto poche settimane fa un carissimo amico dall’Italia, ma non mi sono mai sentito così libero come oggi di esprimere me stesso e dichiarare il mio amore per la vita e per le persone che nei miei trascorsi burrascosi mi hanno regalato un pezzettino del loro miglior “ME” senza chiedermi nulla in cambio.
L’acqua o le sbarre non fermano le idee, ma le stimolano facendole scivolare lontano. Chiunque pensi di essere solo o sfortunato, tenti un viaggio dentro se stesso e scoprirà gioie inaspettate.

 Non tutti possono raccontare la propria infanzia, le proprie esperienze o i propri legami associandoli alla parola felicità, e allora si decide di usare l’odio come linguaggio, scrivendo poesie con il sangue. Sarebbe comodo da parte mia, in quanto credente, scrivere che Dio è con noi (anche se lo credo ciecamente); ma la chiave per uscire dai propri incubi è custodita nel cuore di ognuno di noi: come diceva Bertoli, fonte chiara e pulita…
Sarà banale ma parte tutto da lì, e non potendo cambiare ciò che ci circonda siamo liberi di cambiare noi stessi. Questa è la mia idea di libertà in questo momento del mio viaggio chiamato vita, ed è per questo motivo che non intendo più fissare il soffitto della mia stanza pensando che domani sarà lo stesso giorno vissuto oggi. Libertà.


NOTA 1: i tagli da barba nella scala May giovane che apprendeva la nobile arte della spada da faccia erano cinque.
Livello 1: Graffio del quale non ti accorgi seppure è in grado di sanguinare per ore.
Livello 2: Ops, mi sono tagliato! Lo avverti, devi intervenire con piccola tamponatura e cerottare.
Livello 3: Taglio bastardo, brucia e fuoriesce sangue copioso. È il taglio di livello più alto al quale si arriva più comunemente.
Livello 4: Taglio serissimo da pronto soccorso che richiede punti di sutura. Per farlo devi raderti e contemporaneamente pogare a un concerto degli Slayer mentre suonano Angel of Death.
Livello 5: Decapitazione. L’angelo della morte ti appare allo specchio nell’istante in cui la testa salta come un tappo di champagne Dom Perignon Mathusalem vintage 1979. Le ultime parole che proverai a dire saranno: Eppur si muove!

NOTA 2: Quando in cucina si parla di sciroppo, normalmente si indica la soluzione di acqua e zucchero seguito solitamente da una frazione che ne indica la proporzione zucchero/acqua. Esempio: Sciroppo 1/3 significa un kg di zucchero e tre litri d’acqua.

31 ottobre 2012

Lettera numero quattr-o: tempeste, risvegli ed incubi filatelici


ANDREWMAY73 LETTERA

NUMERO QUATTR–O

 La vista di quello studio antico levava il fiato. Non so dove mi trovassi esattamente, ma quello che avevo di fronte era uno spettacolo. Librerie antiche in rovere con vetrata, alte due metri e venti circa. Dentro a ciascuno di quegli enormi mobili, decine di raccoglitori con francobolli e storia postale classica da tutto il mondo. Sul grande tavolo di fronte a me, decine di pagine con esemplari incredibili si mostravano ai miei occhi; non riuscivo nemmeno a fare un commento. Fermo con la bocca secca, semi-aperta: inebetito. Nella mia mano si materializza incredibilmente una lettera del 1901 affrancata con uno dei tre esemplari conosciuti su lettera della serie «Esposizione pro-americana di Buffalo» da un centesimo verde con disegno capovolto.
Il timbro postale è di un minuscolo paese dell’Alabama, Bessemer, dove questo incredibile errore di emissione fu scoperto oltre cento anni fa. La prima cosa che mi è passata per la testa era il numero di stipendi che avrei dovuto ricevere per comprarmi una simile rarità. Lo sguardo severo dell’anziano signore che mi guardava con sdegno al di la del tavolo si ruppe lasciando spazio a un lapidario commento: «Novantamila euro spesi bene».

 Neanche il tempo di realizzare che non avrei mai posseduto anche solo per qualche istante un simile tesoro filatelico, che il mio volto di incompetente collezionista si fece pallido.
A pochissimi centimetri da me, forse cinquanta e comunque non più di un metro una vera reliquia postale per noi italici collezionisti. La presi in mano con l’amore che è giusto dedicare a un bimbo, o a un fiore raro. C’era un certificato filatelico e un’elegante taschina in plastica con un piccolo francobollo giallo ocra.         Il documento legalmente riconosciuto emesso da un perito sentenziava:
«L’Esemplare qui riprodotto fotograficamente ha centratura perfetta e gomma originale, ed incredibilmente integra per un esemplare analogo. Appartiene alla serie del Governo Provvisorio del Gran Ducato di Toscana del primo gennaio 1860, valore facciale 3 Lire, colore ocra giallo. Al momento dell’esame si presenta in stato di conservazione eccezionale ed è stato firmato al verso. Londra Dicembre 21, anno 1913».
 
Lo raccolsi e, complice la mia demoniaca invidia, lo danneggiai come più potei, spiegazzandolo tutto. L’anziano non ebbe nemmeno il tempo di gridare, anche se il suo volto di pietra e il suo sguardo terrorizzato non mi avrebbero dato tregua facilmente.
Neanche il tempo di portare a termine un gesto così bieco e deplorevole che uno squassante boato fece tremare tutto. Un’esplosione mostruosa e poco dopo un’altra, e un’altra ancora. Fui colto da terrore, e fu così che il mio inconscio ordinò ai miei occhi di aprirsi. Stavo fissando il tetto della mia cameretta e sentii nuovamente un boato tremendo, tanto da far tremare persino il letto.

 Adesso sono cosciente! Mi alzo di scatto, come un vero e proprio tarantolato, e sudato all’inverosimile cerco di capire cosa sta succedendo al mondo. Realizzo subito. Avevo visto mareggiate grandi in vita mia, ma adesso mi ci trovavo letteralmente in mezzo. Onde di sette, otto e forse anche dieci metri si frantumavano nel terrapieno del faro e nel faro stesso, dando vita a una sinfonia di distruzione. Un’apocalisse di suoni metallici. Non mi vergogno a scrivere che me la sto facendo sotto e guardando quelle cuffie antirumore appese al quadro comandi, adesso finalmente ci trovo un senso.
Faccio un sopralluogo in tutta la struttura, ma è davvero tutto incredibilmente integro (1), non fosse per il rumore davvero inquietante.
Chiamo la capitaneria per dire che qui è tutto apposto, e mi risponde assonnato il mio omonimo che mi fa una battuta in quello che presumo sia scozzese.(2)

Pur non capendo nulla lo mando letteralmente a fare in culo e poi mi ridò un tono, tanto oramai la nottata è compromessa, ed io non posso che aspettare un’alba incredibile se la tempesta si placa prima. Indosso le cuffie antirumore e metto su la mia bialettina con il caffè giusto. Scopro che le cuffie cambiano la percezione del mondo, dell’ambiente e del caffè. Bene, pirla. Adesso siediti e scrivi. Sfogati. Certo sì, ma cosa? Ah, certo. C’è quello strano sogno del quale ricordo davvero poco, ma sono sicuro di sentirmi inadeguato nel rievocarlo, perché sono tuttora a disagio mentre tento di entrare disperatamente nella mia cosiddetta comfort zone. Inizio a masticare la mia Bic nera stuzzicandomi le labbra e ticchettando il mio naso, che mi segnala l’uscita del caffè tipo Allegro Chirurgo.
Adesso visualizzo qualcosa, inebriato dalla caffeina. Sì lo visualizzo, era un Tre Lire di Toscana. Una delle più grandi rarità filateliche della storia d’Italia. Ma al di là del suo livello di rarità assoluta (ne esistono 325 in totale dei quali solo due su lettera, quattro su frammento, cinquantaquattro nuovi dei quali solo uno catalogato “Champion” che si aggiudicò addirittura la copertina della rivista Life nel 1954), e al di là della sua quotazione di catalogo a sei cifre in euro, resta un francobollo speciale, e nessuno, soprattutto tra i non addetti ai lavori, s’immagina quanto e perché.
Correva l’anno del signore 1860, primo gennaio. Da lì a due mesi Cavour avrebbe chiesto al Gran Ducato di Toscana di annettersi al regno di Vittorio Emanuele II, ma senza una spiegazione storica, qualcuno decise d’inserire proprio sull’alto valore della serie di francobolli toscani l’indicazione IT di Italia accanto al valore facciale: se vogliamo, come esplicito invito a promuovere l’iniziativa piemontese. L’Italia non esisteva ancora nel 1860 eppure aveva già un suo baluardo!

Questi francobolli vennero usati per tre anni sino al 1863 e non esiste informazione sicura di quanti ne siano stati emessi, ma è sicuro che tutti gli esemplari non utilizzati a quel tempo furono distrutti. Divenne subito una rarità filatelica sino dagli albori di questa nobile forma di collezionismo (intorno al finire della decade del 1860). Il famoso falsario francese Jean de Sperati decise di iniziare la sua carriera criminale proprio dopo aver preso una solenne cantonata acquistando un presunto Tre Lire per centomila franchi a Parigi nel 1920! Nessuno s’immaginerebbe che questo piccolo francobollo abbia persino spinto il regista Andrea Pellizzer a farne un film, Tre Lire primo giorno, fantasticando su un’inverosimile busta viaggiata il primo giorno di emissione di questo francobollo. Questa però è un’altra storia (3).

Lo scorso anno abbiamo festeggiato il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, ma se vogliamo, la filatelia italiana ha anticipato tutto di un anno con il Tre Lire di Toscana, attraverso l’uso del nome, della moneta e di simboli comuni.

Eravamo un branco di nazioncine fantoccio nel 1860. Ed oggi, mentre alcuni politici nostrani dicono di volercisi pulire il culo con la nostra bandiera, siamo una nazione stracolma di difetti e criticità ma con un’identità eterogenea ma comune. Sono un insopportabile idealista, lo so, ma ci convivo.
Leggere lo scritto da un auto-esiliato che ha rinnegato parzialmente l’essenza del proprio Paese posso capire non abbia grande credibilità, ma questo è ciò che penso qui nel mio faro alle 5 del mattino mentre il mare si zittisce ed il cielo è un preludio alla più bella alba della storia.

 NOTA 1 : nota incredibile della storia bi-centenaria del faro Bell Rock (1811) è che ha sempre funzionato resistendo alla furia delle onde, senza mai avere bisogno di riparazioni, salvo quelle rese necessarie da un elicottero che vi si schiantò nel 1955. Evidentemente la passione del costruttore Robert Stevenson per questo progetto diede buoni frutti.

NOTA 2: Il gaelico scozzese (Gàidhlig) è una lingua appartenente al gruppo Goidelico delle Lingue celtiche. Questo comprende anche l'irlandese e il mannese. Il gaelico scozzese ha avuto una crisi nel '700 e nel '800 quando gli inglesi vietarono di parlarlo. In questa fase avvenne una vera e propria pulizia etnica, caratterizzata dall'esproprio delle terre ai clan. l'abolizione degli stessi clan, il divieto di parlare gaelico in pubblico. Nessuna tradizione poteva essere seguita (compreso il suonare la cornamusa). Nel 2001 questo idioma venne ufficialmente riconosciuto e tutelato ed è conosciuto da una piccola percentuale degli scozzesi del Nord Ovest.
NOTA 3: Sul sito www.trelire.com troverete tutte le informazioni sul film del 2009 “Tre Lire primo giorno” di Andrea Pellizer interpretato da Fabrizio Veronese, Carlo Rivolta da Vanzaghello e Matilde Rivolta. Una commedia low cost simpatica, brillante e soprattutto diversa.