23 luglio 2013

Lettera numero 20: Il vento caldo dell’estate ed altri miraggi


Lettera numero 20...

Poco meno di due ore mi separano da una pedicure con annesso splendido massaggio ai piedi in uno dei tre centri benessere della cittadina di Arbroath. Lo studio in questione, dotato di ampia vetrata sulla centralissima Kirk Square, è collegato a un parrucchiere associato dal quale sono stato già tre volte con grandissima soddisfazione.

Non avevo mai provato un massaggio ai piedi con olii essenziali e altre sostanze sconosciute tremendamente tonificanti e piacevoli, ma fidandomi dell’edicolante del porticciolo, il mese scorso ho deciso di provarlo almeno una volta. E oggi ci torno con grande gioia, anche se questa voglia risparmierò il taglio di capelli. Non avrai il mio scalpo, abile parrucchiere.

Sarah è l’estetista che in giugno mi ha a dir poco coccolato ed è stata così abile da farmi abbandonare a un relax quasi ipnotico. Il mio nuovo appuntamento è ancora con lei, che pur non essendo molto attraente, ha uno splendido odore. Uno di quei sentori femminili che catalogo come “fruttati non aciduli”. Ricordo perfettamente l’odore di ogni donna che ho conosciuto e con la quale ho avuto frequentazioni anche solo da bar.

Tuttavia, l’elegante insegna lignea di color bianco e nera che riporta l’esotico e buffo nome del centro estetico non fa sufficiente ombra in questa caldissima giornata estiva scozzese, per cui trovandomi già in loco decido di entrare a godermi una frescura armato di mp3 e un’amplissima selezione musicale.

La mia mente si sta già abbandonando allo stato di subconscio indotto e quelli che seguono sono i pensieri che volano liberi in quel piccolo contenitore camuffato da centro operativo chiamato scatola cranica.

Non riesco a sentirmi appagato da me stesso. Fingo di essere felice ma non credo la cosa possa durare in eterno. Che bel profumo questa ragazza.

Quanto era bello uscire da casa dopo aver fatto l’amore con la mia valchiria e averne ancora l’odore sulle dita. Chissà chi abita in quella casa adesso. Quante litigate, i suoi genitori schiavisti e gli amici mai pronti a capirti soffocati dall’affetto che provavano per te.

Non potrei pretendere molto in fondo. Sono un orfano della peggior specie, mi diceva il maestro: non riesco a dimenticarlo.

Suor Anna mi amava e per me era una madre. Non sarebbe fiera di me e non crederebbe adesso al guardiano del faro. Anche lei vola adesso.

L’illusione di essere normale, le caldi estate dei primi anni ‘90 al lavoro, adolescenza stoppata bruscamente. I tradimenti dei propri principi da templare.

Il camion tagliò il filo che legava i miei genitori adottivi alla vita. Un ubriaco croato. Una telefonata e tanto smarrimento. Odore di spogliatoio e il silenzio interrotto dalla caldaia del ristorante unico  rifugio possibile.

Il sapore delle lacrime salatissime di quei giorni e l’evoluzione a uno stato mentale successivo.

Il labirinto della droga. L’orrendo gioco dell’alzare sempre più in alto l’asticella dello sdegno.

Umiliazioni e gesti biechi. Gli specchi rotti e la voglia di essere migliore soffocata dal primo colpo di tosse.

L’amore illusorio. La voglia di telenovela porno. Inutili sbalzi d’umore e reazioni scollegate dalla realtà.

La presa di coscienza e l’abbandono di tutto. Gli aerei, mille persone dimenticate e tanto sudore. Viaggi improbabili, falsi contratti, truffe e raggiri.

La violenza subita. I torti fatti e non pagati. L’accettazione della parola vergogna.

La riflessione e la rielaborazione del proprio mondo. Distinguere il bene e il male e poi ripartire.

Il coraggio e la passione. Cancellare la parola rimpianto e problema. La fenice.

L’ultimo aereo, il faro poi Parigi. Poi chissà. Io sono ancora qui e non capisco cosa stia facendo o cercando in Scozia.

Adesso provo disagio e apro gli occhi.

 

Sarah mi guarda con un sorriso smagliante teneramente compassionevole e mi dice che se non ascoltassi musica durante la seduta mi avrebbe chiesto un sacco di cose sull’Italia. È il paese che amo, mi dice in un italiano claudicante e aggiunge che il prossimo anno vorrebbe passare un mese con il suo ragazzo a Roma, Firenze, Venezia… e Livorno, dove vive una sua zia acquisita.

Mostro timidamente di essere compiaciuto della sua decisione e poi le stringo la mano ringraziandola e complimentandomi per la sua abilità mi dirigo felicemente intorpidito all’uscita.

Sulla strada lo schiaffo del caldo mi fa quasi perdere l’equilibrio. Mi fermo al market per acquistare un box di birre e poi al molo per rientrare al mio rifugio con i miei nuovi piedi sostanzialmente unti e profumati.

Sulla barca del rientro al faro, voglia di sistemare francobolli antichi; quelli neozelandesi arrivati una settimana fa all’ufficio postale “Quattro” di Arbroath.

Sei solo, guardiano, non voltarti. Trasforma ogni tuo piccolo viaggio fisico o mentale in un’esperienza memorabile, non importa se la poca consapevolezza della vita rubata potrà essere condivisa o meno.

Il dolore mi nutre, il malessere e il disagio mi fanno sentire vivo. Se imparo a convivere con tutto questo avrò raggiunto una meta, anche se non capisco quale possa essere in realtà.

Mano nella tasca sinistra, tre mandate in senso antiorario tirando forte a sé il pesante portone metallico del mio “Bell Rock” per dirigermi velocemente alla scrivania, birra alla mano.

Passo a disporre con cura le attrezzature necessarie sul piano da lavoro. Catalogo specializzato “Yvert” per la Nuova Zelanda, pinzette inox ergonomiche da 15 cm punta arrotondata, lente d’ingrandimento professionale con focus x2 e x4 auto illuminante, filigranoscopio elettronico, lampada di Wood portatile per rilevare eventuali fluorescenze, odontometro decimale per stabilire le dentellature dei vari francobolli, cartoncini con listelli per disporre i pezzi catalogati, targhette segnaprezzo per scrivervi numero di catalogo note e prezzi, post-it piccoli e multicolore per annotazioni diverse, e infine il grosso album da 32 pagine color magenta stracolmo di francobolli neozelandesi dal 1857 a oggi. Oltre 3000 pezzi su 64 facciate con bei doppioni anche di valore e alcune interessanti varietà da sottoporre agli esperti di francobolli neozelandesi attraverso i forum filatelici che normalmente frequento.

Bevo un sorso di birra e comincio la prima parte della lunghissima maratona filatelica al termine della quale mi sarò dimenticato praticamente di tutto ciò che ho fatto durante il mio day-off. Ad eccezione del profumo di Sarah.

29 maggio 2013

LETTERA NUMERO 19: Immagini confuse di ieri e di domani

 Immagini confuse di ieri e di domani

Ci sono ricordi confusi che spesso ti lacerano quasi inconsapevolmente. Non parlo di grandi traumi diretti o di incredibili shock subiti, ma di cose altrettanto tragiche che s’insinuano nella nostra mente.

Qui ad Arbroath il mio faro è sotto una pioggia battente da almeno tre giorni e le giornate del timido caldo primaverile delle settimane passate sembrano essere quasi un fatto storico, lontano.

Due sere fa, lo scroscio continuo dell’acqua e le improvvise folate di vento hanno provocato uno strano effetto sonoro, un rumore simile a un urlo umano, e la mia mente ha riacceso una lampadina su un fatto triste e penoso accadutomi oltre 15 anni fa, quando vivevo in una casa del centro storico genovese alla quale ero molto affezionato: la mia “casetta”.

In quel periodo, tentavo goffamente di assomigliare a tutti i costi a un poeta maledetto o a una versione annacquata e sfigata di qualche rockstar dannata di fine anni ’60-primi ‘70. Oltre a non essere felice, terminavo spesso le mie serate vomitando nel mio bel cesso di casa o in prossimità del portone, sino al punto di giacere privo di sensi sul mio vomito per almeno un’ora se non più.

La sera in questione non ero completamente ubriaco, anzi ero soltanto simpaticamente brillo e terribilmente stanco. Arrivai a nanna dopo una doccia faticosa e mentre ero a letto in piena notte, sentii quello che poteva sembrare un urlo femminile. Aprii gli occhi e percepii ancora un po’ di rumori indefinibili ma tanta era la stanchezza che decisi di continuare nervosamente a dormire.

Il mattino dopo, sulla via del lavoro, vidi la polizia e l’ambulanza portare via il cadavere di una mia vicina di casa, tragicamente assassinata dal suo rude compagno tossicomane con cui coltivava un amore malato da qualche anno.

Mi sentii talmente a disagio da dovermi sedere su una panchina: non avevo mai provato una sensazione di amaro in bocca e stomaco torto così intensa come quel mattino. La giornata lavorativa scorse via lenta e inesorabile mentre io non potevo fare a meno di pensare a quell’urlo che ero quasi convinto di avere sentito.

Con ogni probabilità la mia mente decise di rimuovere progressivamente il brutto ricordo di quel giorno, ma adesso che mi trovo a oltre 3 mila km e, credo, 750 settimane di distanza, il destino piovoso ha riacceso la luce su quel ripostiglio mentale che utilizziamo per sbarazzarci di inutili o dolorosi fardelli psichici.

Tutto questo accade mentre ho scoperto di avere maturato quasi quindici giorni di ferie e che la capitaneria mi spedirà via dal faro con un sonoro calcio nel sedere se non mi organizzo in fretta per levarmi di torno queste due settimane.

Spegnendo nuovamente la luce di quello stanzino della mia mente, e non avendo parenti prossimi in Italia, ho deciso di andare a visitare Parigi. Mi sto già programmando il viaggio, ma non do niente per scontato fino a che non avrò realmente prenotato i biglietti aerei.

Sono emozionato all’idea di interrompere il mio esilio nei mari di Scozia per andare in una delle più grandi città europee, e in un certo senso mi sento confuso ma pronto a lasciarmi tutto alle spalle. Avevo una mezza idea di chiedere a Jenny se avesse voluto venire con me, ma una vocina mi ha lasciato intendere che non sarebbe stata una buona idea. Spesso mi sento solo e forse ho solamente bisogno di un surrogato di affetto al quale nemmeno le piccole cose importanti e i rituali di cui mi circondo possono sopperire.

A Parigi, se davvero sarà quella la mia meta, intendo camminare moltissimo e visitare l’impossibile. Per almeno due settimane mi sentirò un altro uomo, o forse tornerò ad essere quell’uomo che non c’è più. Peggio ancora: sarò un uomo nuovo che non c’è mai stato e magari tornerò ad essere un ragazzino con l’argento vivo addosso.

A Parigi amerò la vita e scriverò, lontano dalle urla, lontano dalle onde gelide dei mari del nord, e vivrò nella fantascienza. Mi aprirò il cuore davanti a Notre Dame e ammirerò da un angolo defilato gli sguardi degli studenti che disegnano la splendida facciata gotica. Mi stupirò nel vedere i volti anestetizzati alla bellezza di chi vive in certe piazze meravigliose del centro, e capiterò volontariamente in zone di Parigi che nulla hanno a che vedere con le mete turistiche, fingendomi un indigeno.

Entrerò in uno di quei negozietti che esplodono di ninnoli irresistibili solo per il gusto di non spendere un centesimo e userò il mio potente naso da ex chef di cucina per annusare alberi, fiori e ciascuna delle altre miriadi di cose che si potrebbero trovare ovunque, per carpirne eventuali differenze di odore.

Mi siederò su una panchina in una larga via alberata con antichi e maestosi palazzi per chiudere gli occhi e ascoltare al buio che rumore fa Parigi. Mi godrò ogni singolo istante di persona lontana dal mondo salmastro nel quale mi sono immerso sette mesi or sono.  

Accarezzerò un cielo diverso a ogni occasione nella quale prenderò fiato, o scruterò a lungo un formidabile cartellone pubblicitario di qualche stilista francese.

Sarò libero di non leggere libri, schiavo delle emozioni del momento e nessuno potrà pensarmi come il guardiano di un piccolo tratto di mare scozzese.

Andrò alla deriva di me stesso, ma stavolta senza svenire nel mio vomito; mi sforzerò di non dare per forza un senso alle cose. Scoprirò forse me stesso o imparerò ad ascoltare ciò che è altro da me. Non farò a braccio di ferro con la coscienza e pregherò a testa in giù per una sera intera. Alla fine, non  ricorderò nulla del viaggio, e non scriverò nulla di ciò che sarà stato. C’è ancora molto spazio nella mia testa malconcia, le mie scarpe mature dovranno farne molta di strada o parafrasando un modo di dire tipico degli addetti in cucina “devo mangiarne ancora molti di panini”. In tasca non avrò molto ma sarà anche troppo.

Ora mi restano solo il fragore dell’acqua sul faro, il ricordo di una primavera morta sul nascere, e una valigia da finire.      

 

 

30 aprile 2013

Lettera numero diciott-o: Improbabili stelle, percorsi deviati...


Prima di addormentarsi, chiunque chiude i propri occhi, il cuore rallenta ma la nostra anima spesso non riesce a inviare lo stesso comando alla mente.
A partire dal momento in cui solleviamo il dorso dal letto succederanno almeno CINQUECENTO cose più o meno piccole, ingurgiteremo circa DUEMILA kilo-calorie, saremo disgustati da almeno TRE servizi del tg, pronunceremo almeno UNA decina di parolacce di gravità differente per motivi spesso futili, berremo forse CINQUE bevande eccitanti, faremo o invieremo almeno QUINDICI fra telefonate o messaggi e TUTTO questo prima di riappoggiare la schiena sullo stesso materasso. O forse nemmeno il proprio.

Ad ascoltare alcune statistiche sui quotidiani o alcuni servizi televisivi dei telegiornali, questi snocciolati sono grossomodo i “numeri” di una persona media nei ventisette paesi più industrializzati. Deduco che l’essere al di sotto o al di sopra di queste cifre fa del soggetto un “non normale”. Questa fascia abbraccia probabilmente una larga schiera di persone che variano dai clochard ai depressi ai disoccupati ai tossicodipendenti o ad alcuni artisti.

Il punto è che non esiste un punto e la parola normalità può essere vista ed interpretata in maniera assai differente. In compenso mentre tentiamo di immagazzinare, gestire, accarezzare una infinità di dati o statistiche siamo costretti a generalizzare su qualsiasi argomento e tutto per semplificare. Sembrerebbe una cosa da nulla ma questa è una devastazione per la nostra capacità di autocritica che ci induce a stravolgere totalmente il significato delle cose. Con questo tipo di logica si arriva a chiamare un SUV “Captiva”, e lo spot dovrebbe suggerire libertà di movimento. Ma “captivus” non significava “prigioniero”? Beh, è una storia inutile.
Dopo una lunga manovalanza specializzata spesa in decine di cucine di ogni dimensione e tipologia si arriva ad esasperare il livello qualitativo del piatto dimenticando totalmente la cosa più importante: il grado di soddisfazione dell’ospite. Ripeto: “ospite” e non cliente.

Un vecchio chef ubriacone, blasfemo, stronzo, maschilista e razzista dal quale c’era solo da imparare m’insegnò una grande lezione di vita. Mi chiamò a rapporto mentre annunciava la sua nona o decima uscita dalla cucina per prendere un caffè al bar. Ero terrorizzato all’idea di subire come punizione per una delle mie decine di stronzate quotidiane la pulizia di una vasca di calamari gelo che mi procuravano (superati i 30 kg) una forte irritazione alle dita delle mie povere mani.
Mi mise una mano sulla spalla e pensai a una tale anomalia da raffigurarmelo persino gay. Mi disse di seguirlo nella sala proprio dietro l’angolo dov’era posizionata la nostra macchina da caffè, una Cimbali 4 bracci dei primi anni Ottanta: un caffé ottimo. Credevo si mettesse a fare due caffé rimproverandomi per qualcosa, e invece accadde l’impossibile. M’invitò educatamente a guardare la sala mentre le decine di ospiti erano intenti a pranzare, al tempo in cui le famiglie ancora potevano permettersi di uscire la domenica per un pranzo fuori porta. Quindi mi apostrofò chiamandomi “Sergej”, il nome del lavapiatti ucraino che ci supportava in cucina.

“Se tu guardi ‘sti stronzi in faccia, ti accorgerai di com’è andato il tuo lavoro. Le espressioni della faccia non ingannano mai, e due sono le cose che gli uomini e le donne che vanno a mangiare fuori non ti perdonano: gli uomini vogliono qualcuno che cucini come la loro mamma, e le donne odiano il freddo in sala. Perciò, se questo accade, una volta tornati a casa non scopano e ti fanno una pubblicità di merda”
Passarono alcuni secondi nei quali lo chef mi fissava malamente e riprese

 “Che cazzo ci fai qui? Va’ a pulire i calamari con Andrew!”
Evitai di correggerlo sebbene avesse confuso i due nomi, così come eviterò di scrivere il seguito del suo commento rivolto al cielo, alle donne e al Milan, sua squadra del cuore. Ne fui turbato.

Entrando in cucina gli altri tre colleghi/boccia mi guardavano come se avessi tradito qualcosa o qualcuno, e fu l’ennesima giornata nera di lavoro. Ero una recluta e così dovevo morire, nessun privilegio, testa bassa e mani rosse.

Adesso ritorno al faro e sono passati più di 18 anni da quei momenti assurdi. Statisticamente non sono un clochard, un depresso, un disoccupato, un tossicodipendente o un artista, ma sono un guardiano del faro. Se dovessi dirla tutta, il mio è un lavoro di rappresentanza per onorare il faro moderno più antico del mondo. Se un operaio di catena di montaggio sapesse che ogni giorno faccio nulla e guadagno poco meno di loro s’incazzerebbe parecchio. Lo capirei, ma io sono in prigione e come ogni carcerato che si rispetti faccio pesi, corro nel mio cortile chiamato Arbroath durante l’ora d’aria, e immagino.
In più studio, colleziono francobolli e mi disfo dei miei migliaia di doppioni vendendoli online. Anche questo è un modo per costruire un ponte con il resto del mondo. Di guadagnare non me ne frega niente: quello che mi dà piacere è ricevere il ringraziamento di persone sparse per il globo. Considero queste cose come il mio modo di colorare la mia vita, e se ne fossi in grado lo farei sul serio.

Certe volte  infatti, vorrei essere proprio un artista, un valente pittore, e omaggiare il mondo di opere da un faro, oppure opere con fari. Penso ai tempi delle scuole medie quando la mia compagna di banco era una dolcissima Daniela del quale non ricordo esattamente il cognome anche se sono quasi sicuro iniziasse con la lettera “M”. Daniela disegnava e dipingeva come una vera artista: Daniela ERA un’artista! Lo dico considerando il significato più alto della parola. Anzi, Daniela lo è ancora adesso una pittrice: organizza mostre ed è molto apprezzata a livello regionale.
Mentre io stupravo i fogli da disegno con la delicatezza di un panzer classe   “KING VI”, Daniela li valorizzava. Prendeva delle matite colorate, dei pastelli o dei pennelli e fotocopiava angoli di paradiso. La severa professoressa, credo quasi sessantenne,  passava tra i banchi e, arrivata all’altezza del nostro, guardava estasiata Daniela che ammetteva candidamente: “Non riesco a fare la sfumatura tra l’arcobaleno e la cascata”.

Lo sguardo della navigata professoressa poi sfiorava me, con disgusto e compassione inseriti fra una ruga e l’altra di quel volto che mi ricordava un moai. Un giorno mi chiese: “Andrew, vai così male in tutte le materie?”
Mi ha fatto sentire a dir poco inadeguato e fuori posto, ma sono certo che non lo ha fatto con cattiveria. Io ammiravo Daniela ma non volevo dirle che avrei voluto disegnare bene anche solo la metà di quanto lo faceva lei.

Adesso tuttavia, dopo 27 anni circa, ho voglia di rispondere alla oramai vecchia Isabella…

Cara Isabella C., adesso lei dovrebbe avere circa ottant’anni ed io sfioro la metà di questo traguardo. Inutile dirle che le auguro  sinceramente salute e gioia sino ai cento. Si ricorda di me? Sono Andrew, il compagno di banco della mistica Daniela M. quella che lei stessa definiva “la miglior allieva di sempre” nella sua già ultra-trentennale carriera da professoressa.  Insomma, ricordandosi di Daniela M. dovrebbe pensare allo sfigato che le sedeva accanto e che “zappava” sui fogli da disegno. Nell’anno del signore 2013 scrivo da un computer incastonato nell’improbabile scrivania di un faro. Sono passati più di 24 anni da quando ero un suo pessimo alunno.
Sono stato comunque un bravo ragazzo (forse), ho seguito un percorso particolare che mi ha portato a diventato il guardiano di un faro, ma solo dopo una carriera ventennale da cuoco in giro per il mondo. Sui piatti so scrivere, decorare e colorare, ma non ho mai imparato a disegnare su un foglio e ho conservato la mia pessima grafia. Non essendo un “Artista”, le statistiche dicono di me che sono solo una persona normale, ma a me va bene così. Sono sicuro che lei è una bravissima persona ma nel dire alcune cose ad alcuni suoi studenti feriva nel profondo. Io ero certamente tra queste persone ma non serbo alcun rancore, anzi le scrivo che nonostante tutto le ho sempre voluto bene perché era una docente molto preparata che aveva passione e la sapeva cogliere e apprezzare nei suoi studenti migliori. L’arte migliora il mondo e lo rende più bello, purtroppo non ho la giusta cultura e sensibilità per poterla capire. Ecco, tutto qui. Se avessi il suo indirizzo le manderei una cartolina di Arbroath con un bel francobollo di un faro.

Le auguro il meglio Isabella C.

Andrew

11 aprile 2013

Lettera numero diciassett-e: " Mi ricordo"


Mi ricordo...

In una domenica pomeriggio in cui “piovono cani e gatti” (1), per dirla come gli inglesi, ci sarebbero ben poche attività in grado di stuzzicare l’immaginario collettivo. Sorvolando sulla prima, che prevede l’utilizzo di uno o più partner con corpi inebriati dagli ormoni, rimarrebbero la partita a scacchi con lo zio/nonno, qualche foto di vecchi album di famiglia, la catalessi provocata da alcuni interminabili show televisivi domenicali, e poi chissà che altro.
I più fortunati attizzerebbero il caminetto e lo scoppiettare della legna si fonderebbe magicamente con lo scroscio della fitta pioggia sugli usurati tetti a spiovente.

Altri come me, oltre a non avere un camino funzionante e relativo impianto di dispersione dei fumi, escogiteranno il miglior modo per non lanciarsi con grande potenza di testa sul muro bucciato dell’androne allo scopo di spezzare la monotonia scrivendo magari con il sangue sul muro “mi ricordo”.
Non posso nemmeno aprire la finestra visto che l’acqua piove quasi in orizzontale, spinta da un vento a dir poco ingiusto. Bastardo di un vento!

Oh! Quella cassa dei vini nell’angolo basso vicino al mio schedario parzialmente adibito a magazzino mi lascia presagire come posso passare felicemente le prossime ore, senza arrecar danno a chicchessia. Apro il meccanismo a molla che toglie i fermi alle confezioni di una prestigiosa casa vinicola veneta, e subito mi appaiono centinaia di lettere acquistate negli anni scorsi. Storia postale mondiale dal 1850 circa al 1945, includente anche alcune belle cartoline e lettere e qualche frammento (2) sparso qua e là.
Come collezionista di francobolli e appena conoscente di storia postale, nella mia vita ho conservato solo alcune lettere antiche in virtù della loro rarità, ma quello che sto spulciando in questo momento è una specie di occhio magico sul passato; nulla a che vedere con qualunque livello di ricercatezza.

Il mio sguardo, ma aggiungerei anche la mia mente e la mia immaginazione, questa volte si sofferma non tanto sul valore puramente economico o collezionistico di questi vecchi pezzi di carta, quanto sul loro contenuto. Accarezzo un mondo che non esiste più da almeno cento anni, quando si agiva per rabbia o passione cieca, quando la parola era contratto, e quando i soldati si innamoravano delle donne dei Paesi belligeranti e poi le andavano a ritrovare al termine del conflitto per prenderle in sposa. Che aggiungere? Poesia, se vogliamo.
Per capire l’importanza di una lettera spedita oltre un secolo fa, forse dovremmo chiudere gli occhi, respirare profondamente, e immaginarci un mondo senza elettricità domestica, telefono su larga scala e men che meno radio, televisione, Internet, Twitter o Facebook. I viaggi su nave duravano forse mesi e diversi bimbi di migranti nascevano sui bastimenti diretti in Argentina piuttosto che verso gli Stati Uniti. Le piccole cose erano semplicemente cose perché tutto era importante, e non era insolito gioire tanto da lacrimare per un dolce quanto per una scarpa buona.

Apro la prima corrispondenza, che è relativamente “recente”, e più precisamente è una lettera di posta aerea datata 4 aprile 1940. Il luogo recante il timbro era Massaua , alla volta della Germania. All’epoca eravamo una “non-potenza” coloniale, se non ricordo male, e sulla busta spicca l’inequivocabile stemma che indicava la censura tedesca… Tempi bui che nessuna luce sarebbe stata in grado d’illuminare per almeno un lustro. Una tremenda voglia di vita e di normalità avrebbe messo a posto le cose.
Tornando alla lettera. Una splendida affrancatura mista composta da francobolli delle colonie di alto valore. Questi francobolli fanno parte dell’ “Africa orientale italiana” e sono molto carini ma distraggono l’allenato occhio filatelico dal nome del destinatario: “Margherita Ott Gaudenzi” di Hannover.

All’interno un ingiallito foglio piegato e strappato a metà scritto molto bene in un corsivo italiano con un tratto lineare e pulito. Il soldato in questione, nelle poche righe a me concesse dal destino, parla della guerra in maniera umana. Un ricordo tremendamente bello e importante del suo passato scritto nella consapevolezza dell’ inevitabile occhio tiranno della censura hitleriana:

“Amatissima Margherita mia,
non penare perché sono certo la guerra volgerà a nostro favore sia in terra europea che nelle distanti e calde terre selvagge africane.
Nel campo la vita è dura ma accettabile ed il rancio non manca mai, soprattutto per noi ufficiali.
Mi mancano invece tremendamente le nostre passeggiate al fiume nelle quali ci guardavamo senza dire una parola ma che si interrompevano di tanto in tanto con divertita complicità.

Per la prima volta nella mia vit…….”

Il mittente in questione, Tenente Gaudenzi Federico, non credo ostentasse tranquillità, ma certamente non avrebbe minimamente immaginato che nell’arco di sessantaquattro mesi sarebbero successe cose tipo: attacco a Pearl Harbour, olocausto, fine del regno d’Italia, liberazione dal nazi-fascismo del quale anche lui era parte integrante, nascita di due blocchi mondiali contrapposti e due devastanti bombe nucleari a completare questo tragico immediato futuro.
Il pezzo della pagina strappata sarà da qualche parte nell’universo, oppure si è trasformato in energia perché bruciato. O forse è finito sull’arcobaleno. Io però immagino quello che Federico abbia potuto scrivere ancora alla sua bellissima Margherita, che forse bellissima non era; ma non lo voglio condividere, lo voglio custodire, in parte per la mia invidia.

Quanto amore, coraggio, amicizia vera sono state sprecate e non documentate solo il secolo scorso: cento anni di guerre cruentissime e atrocità oltre ogni pensabile limite immaginativo.
Non sono uno storico, ma qualsiasi storico mi direbbe che in realtà queste nefandezze sono sempre esistite; fin dalla notte dei tempi.

Non sono un medico, ma se si parla ad esempio di malattie devastanti, qualsiasi medico mi direbbe che in confronto alle epidemie di peste medioevali, alcune patologie moderne sono poco più che un raffreddore.
Non sono uno esperto di storia postale, ma qualsiasi esperto di storia postale delle colonie mi direbbe che fra le enne-mila lettere spedite dall’ Africa la destinazione più comune era la Germania, per cui questa lettera non è niente di speciale.

Non sono nessuno, ma trovo follemente romantico e bello pensare che si sono superati tutti questi tragici eventi perché il numero delle persone che usavano passeggiare vicino a un fiume amando incondizionatamente il proprio partner abbia superato di gran lunga il numero di persone che hanno imbracciato un fucile, anche se non mi illudo minimamente possa essere vero.

La coda dell’occhio mi cade su un piccolo ragnetto sul muro che probabilmente mi studia mentre spulcio queste lettere, e mi domando come diavolo ci sia arrivato un ragno nel mio faro. Mah… Sarà salito su uno dei miei bagagli perché voleva vivere anch’esso in un luogo tranquillo e inaccessibile ai più. Lo considero un ospite e vado a preparare un po’ di tè come si conviene.
Il vento non placa minimamente la sua forza, ma la mia mente è ancora in Africa nel 1940 e poi forse vicino a un fiume, Margherita non si chiama così, ma è bello non essere in guerra.

NOTE:

1.  "pioggia a catinelle" si traduce in inglese "rain cats and dogs", letteralmente "piovono cani e gatti"
2.  quando si parla di frammenti in senso filatelico, si parla di francobolli ancora attaccati a pezzi di carta della busta originale, frammenti per l'appunto. Normalmante quelli antichi hanno un valore più elevato rispetto al francobollo usato, cioè timbrato perchè utilizzato ma staccato dal suo supporto originale (busta, plico o giornale che sia).

29 marzo 2013

Lettera Sedic-i: Every Little Thing She Does Is Magic



 
Un’anziana signora che viveva vicino a me a Firenze mi diceva sempre che per far bene qualsiasi cosa bisogna semplicemente farla.

Nelle ultime settimane ho a disposizione una piccola barchetta con cui potermi avvicinare al molo 2 e sentirmi diversamente prigioniero. Approfittando di questa possibilità, ho deciso di dedicare un’ora della mia vita a correre, per scaricare quella strana sensazione che provi quando hai un peso sullo stomaco ma non riesci a identificarlo.

Dicevo della signora Albina, l’anziana fiorentina. Per circa dieci lunghi e insieme fulminei anni mi sono ricordato di quella massima, tentando di darle una connotazione logica o una specie di senso; ma soltanto oggi, alle ore 7:11 del mattino, esausto per la strada percorsa a grandi falcate, credo di averla finalmente capita. O perlomeno le ho attribuito un significato.

Una volta vidi un programma nel quale uno scrittore di grande fama indicava l’esistenza di un vademecum  su come scrivere bene, e dopo averlo cercato per curiosità iniziai a leggerlo. Le due cose che più mi rimasero impresse erano anche le più scontate, se si vuole. La prima diceva che per scrivere bene bisogna leggere parecchio, e la seconda che quando si decide di sporcare un pezzo di carta con qualche idea o sensazione, bisogna farlo senza pensare di doverlo per forza fare bene. Alla fine del piccolo manuale delle giovani marmotte scrittrici, era indicato un sito internet cui inviare eventualmente domande e richieste di consigli sullo scrivere. Ebbene, chiunque avesse letto il manuale e poi scritto qualche domandina al sito indicato, avrebbe automaticamente messo in pratica quanto detto dal famoso scrittore. Semplice, no?

Le falcate improvvisamente tendono ad avere una cadenza minore, eppure divengono più pesanti e impietose nei confronti del mio povero, sollecitato corpo.

La mente ritorna in automatico alle interminabili giornate di cucina quando con l’intero staff eravamo intenti a sperimentare impiattamenti (1) e sapori a dir poco bizzarri. In quei casi , per quanto ci venissero in soccorso le rispettive doti culinarie e il proprio gusto, ci si rendeva conto che le migliorie più incisive, determinanti e durature della cucina nascevano per caso e mai attraverso una programmazione. Dovrei citare per dovere il melograno mangiato per caso dopo una fine ricotta di capra, o il caffè bevuto con birra artigianale al grano saraceno, ma non lo farò.

Credo che la chiave di tutto sia il fare le cose per il piacere di farle e dunque mossi da quella splendida sensazione di sentirsi gratificati anche dopo un turno di miniera a scavare con le unghie sulla roccia. Passione? Mah. Forse.

Piove, Scozia ladra! Chi non corre probabilmente non sa che con la pioggia battente corri con uno stimolo maggiore, ti sale l’adrenalina ed emerge quella sensazione tipica dei fondisti: “the loneliness of the long distance runner” (3).

Sembrerà strano ma penso che chi possiede una dote pensa automaticamente che tutte le persone la abbiano, ma così non è, e per di più non si acquista al piccolo mercato del mercoledì o al grande del sabato.

Queste persone non sanno di essere speciali perché danno per acquisito il fatto che tutti in fondo abbiano con le dovute differenze, la stessa qualità che in realtà è tutt’altro che comune.

Mentre corro, sentendomi davvero stanco e con l’acido lattico che appicca il fuoco alle mie gambe, sommo gli eventi della mia strampalata esistenza e mi accorgo di interpretarne la metafora stessa. Corro consapevole di voler fare quello che faccio ma senza avere una destinazione.

Difficile spiegarlo se non lo si prova. Nobili sentimenti e comportamenti istintivi danno vita a un puzzle comportamentale e sociale al quale talvolta preferirei non partecipare, e il solo fatto di pensarlo modifica il quadro stesso delle cose, obbligandomi a correre.

La mia è una rivolta, una intifada comportamentale. La mia ma anche la TUA, caro signore che mi guardi passare con malocchio mentre leggi il “Dundee Mirror” dalla vetrata del salotto di casa. E anche la VOSTRA, di tutti coloro che sono alla ricerca di quell’elemento stabilizzante. Credevo di averlo trovato con la fede, ma quello è probabilmente solo il faro del guardiano del faro. Al di là del raggio d’azione di quella luce proiettata in un mare impietoso, non trovo luce in alcuni meandri di me stesso.

Albina era del 1921, una persona semplice e passionale; concreta e lapidaria nel dare giudizi. Ma la sua non era malignità, bensì consapevolezza del proprio ruolo sociale di oracolo di una piccola via dello splendido centro storico fiorentino.

Mi ricordo un giorno di primavera (era aprile) segnato da un insolito caldo umido e perfino fastidioso, mentre aspettavo la mia compagna in uscita dall’azienda di surgelati del suo paparino presso cui io sovente prestavo volontariato 24/7. Dovevamo uscire per un aperitivo, una tornata di shopping, e una cena che avrebbe coronato quello che credo fosse il nostro terzo anno insieme. Sudavo e pensavo alla scena iniziale di Apocalypse Now, mentre sentendomi toccare alle spalle vidi stagliarsi Albina con in mano un oggetto fasciato con l’alluminio alimentare. Mi disse pressappoco: “Oh grullo, aspetti la Nina senza niente in mano? Prendi questo e digli che l’ha fatta l’Albina per lei e che me l’hai chiesto te”.

Rimasi inebetito e ringraziai la signora quando era già a una ragguardevole distanza, a prova di udito bionico. Aprii l’involucro e vi trovai una specie di pane simile al buonissimo “casatiello” (2) napoletano che si fa proprio per il periodo pasquale. Era una sorta di torta pane dolce, o casatiello dolce, che poi ho scoperto la famiglia di Albina preparava da generazioni e generazioni. Eccezionale da accompagnare al vin santo sostituendo gli oramai cari ed eccellenti cantucci proprio a Pasqua. Che dire? Grazie.

Ci sono persone magiche nel mondo e noi “normali” alla ricerca del senso della vita poche volte ce ne rendiamo conto. Albina era magica e aveva capito che quel piccolo gesto avrebbe riempito il cuore di gioia a qualcuno (Nina) più di qualsiasi shopping o cena nel fottutissimo ristorante stellato. Io neanche ci avrei pensato in quel periodo a creare una delle più belle giornate della mia vita facendo felice la persona per me più importante , perché sono fondamentalmente uno stronzo egoista, ed è per questo che spesso corro forte e solitario senza sapere dove sto veramente andando.

A questo punto della storia la domanda che mi rimane è: riuscirò mai a ritornare al molo 2 di corsa?

 
NOTE:
1. IMPIATTAMENTI: in cucina molti addetti chiamano in questo modo le presentazioni dei piatti delle varie portate.
2. CASATIELLO: Preparazione campana  (ed in particolare napoletana) tipica del periodo pasquale. Si potrebbe considerare il casatiello una sorta di pane speciale ripieno di uova, pancetta, formaggio o salame. La particolarità è che le uova sono messe con il guscio.
3. LONELINESS OF THE LONG DISTANCE RUNNER: canzone dell'album "Somwhere In Time" degli Iron Maiden (1986). 

08 marzo 2013

Lettera numero 15: Gocce di luce


Lettera numero 15: Gocce di luce

 Nottata da battaglia navale stasera visto che non so giocare a sudoku. Qualche sera fa ho conosciuto una simpatica scozzese di nome Jenny ed è il mio primo approccio a un essere sostanzialmente di sesso opposto dei miei ultimi sei mesi. Mi correggo: è il suo primo approccio a un alieno sostanzialmente uomo.
Mi ha anche teneramente detto che, pur essendo brutto, la eccitava il fatto che io fossi italiano. La cosa è finita teneramente con un nulla di fatto ma in compenso Jenny mi ha ampiamente dimostrato che la sua tenuta alcolica è ben superiore alla mia. La tentazione di mostrarle la mia collezione di francobolli mi è venuta, ma francamente non mi sento pronto. Non voglio coinvolgermi nemmeno sessualmente, mi sento turbato e fragile da quando sono partito dal suolo italico per le Highlands.
Da quel fatidico ottobre 2012 moltissime cose sono cambiate radicalmente nella mia vita, non ultimo il modo di relazionarmi alle donne. Il mio  faro potrebbe forse essere un monastero marino, perché no.
Dopo una mareggiata emotiva, la spiaggia dove sono solito installare le mie emozioni è strana: profuma di resurrezione. Adesso la fenice che è in me si scrolla la cenere e spiega le ali in attesa di spiccare un volo fantasmagorico, audaci planate e appostamenti degni di un re che scorge l’orizzonte, forte delle sue tenute probabilmente volute da un gioco del destino più che da una divinità.

Amministro la mia solitudine concedendomi ampi spazi di lettura, esposto al vento dei gradini esterni del Bell Rock; e non è lontano il ricordo della rilettura di un libro di un famoso economista indiano, Amartya Sen, considerato da una certa fascia di studenti universitari sinistroidi il non plus ultra in fatto di interpretazione ed elaborazione delle teorie economiche. Per i quotidiani che hanno l’arte di semplificare e, ahimè, sovente fuorviare le persone con titoli ingannevoli, Amartya Sen è “l’economista dal volto umano”. Io non ne ho una definizione perché sono un perfetto ignorante, ma queste etichette mi fanno sentire limitato.
La scelta di combattere le disuguaglianze economiche globali attraverso lo studio dei fenomeni legati a questa scienza, nasce nel piccolo Amartya, bimbo festante sul prato di casa sua, dalla visione terribile di un assassinio per motivi religiosi proprio sul cancello di casa nella regione del Bengala. Questo è quello che lui racconta con tono sommesso ma assolutamente viscerale, deciso e scientifico. Il suo linguaggio è dolce anche quando parla di stagflazione.

La vita delle persone prende pieghe inaspettate per fatti magari non così traumatici ma altrettanto incisivi. Un’accetta colpisce un albero senza magari che il robusto vegetale se ne accorga, tuttavia nella sua solida corteccia resterà inciso per sempre un segno. Le cellule probabilmente si immoleranno per ricordare che qualcosa ha colpito il bersaglio. Un monito? Un autografo del destino? Più semplicemente, il gesto poco rispettoso di uno stolto che passava in quel bosco.
Quando il vento si placa e il reverbero del sole nell’acqua fa scintillare il gigante che mi circonda, riesco a non pensare a nulla per almeno un minuto e mi godo ad occhi chiusi questo caldo inaspettato, talmente umido da farmi gocciolare la fronte e le palpebre chiuse lentamente. Questa terapia solare la chiamo gocce di luce, e mi farebbe piacere ospitare nel faro un poeta perché possa utilizzare per descrivere questa sensazione parole che non ho, perso come sono, nella mie inutili e solitarie elucubrazioni.
La vita ti fa scegliere in continuazione e adesso scelgo di rientrare in casa perché inizio a sentire freddo. Mi chiudo e quasi istintivamente mi dirigo verso il cucinino, intento a prepararmi una merendina.

Amartya Sen sostiene che«l’economia è la scienza della scelta». Io sostengo, senza un Nobel per l’Economia in tasca, che vivo alcune scelte in maniera traumatica e questo è un male. Proprio ieri, o forse ieri l’altro, ho avuto una sorte di visione durante le gocce di luce. Mi è apparsa una splendida fata bianca molto in stile “Lord of the Rings”, che avvicinandosi a me ha intriso un piccolo fardello di seta bianca sulla mia fronte asciugandone l’intera superficie. Poi mi ha parlato con fare fiabesco e strizzato perfettamente le gocce di luce in un piccolo boccettino di vetro il cui effetto al sole creava i colori dell’arcobaleno: «Queste saranno la tua luce nei momenti più bui».
Adesso, può anche darsi che abbia smaltito l’ultimo frammento di ubriacatura della bevuta con Jenny, ma credere in questa assurdità rende la mia giornata decisamente migliore. Il faro mi sta mettendo davanti ad alcune decisioni; il faro stesso è motivo di scelta. Il mio faro è magico, mi basta  nominarlo e subito mi arriva un sms di Jenny: “What are you doing?”

Le mie due teste mi danno impulsi diversi. Una stimolazione puramente fallica e l’altra filosofica o meditativa. Mando un messaggio al marito di Rachel che sta giocando a bersi la paga al pub del porto per dirgli se è disponibile a fare da taxi per un… collega?

Non risponde, è certamente ubriaco, sono costretto a chiamarlo. Peter ubriaco saluta felicissimo, ma mi prende per sua moglie. Alla sua volgarissima avance sessuale telefonica rispondo mestamente con l’invito a tranquillizzarsi, perché, al di la della simpatia reciproca, tra me e lui non può esserci nulla che vada oltre l’amicizia.

Scoppia in una fragorosa risata e poi acconsente alla mia richiesta raccomandandomi di non aver pietà. Bene: una testa ha prevalso sull’altra. Chiamo Jenny e la invito a farsi trovare al moletto 2 entro venti minuti con molta birra possibilmente non già in corpo.
Lo scotch lo metto io: Bowmore Casket Strenght vintage 1989. Un whisky full proof che emana torba, legno, salmastro e fiori a 53 gradi. Lei in realtà non apprezza e magari ripiegherà sulla vodka alla frutta che uso normalmente per fare dolci speziati tipo le albicocche al pepe di Szichuan o altre vaccate simili.

Jenny emozionatissima per il faro e non certo per me approfitta di alcuni giorni di riposo dall’ufficio notarile presso cui lavora da oramai sette anni. Il primo di questi giorni lo dedica a me e credo voglia dare tutta se stessa per farmelo capire.
Le ho promesso che se l’indomani pomeriggio il tempo sarà clemente, le regalerò delle gocce di luce e lei è curiosissima e mi riempie di domande.

Non riesco più a scrivere né a pensare. Faccio una doccia rapidissima, preparo uno stuzzichino veloce da servire all’aperitivo, e tolgo la maschera da guardiano del faro almeno per stanotte. Il cielo stellato mi segnala che nulla andrà storto nemmeno domani e a me non resta che dare l’ultimo segnale in capitaneria.

Il mio faro non diventerà un monastero marino, perlomeno non questa notte.

 

21 febbraio 2013

Lettera numero 14: Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia…


Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia…
Sono seduto in un piccolo bar affollato in totale solitudine grazie a Steve Jobs. Da quando per caso scoprì l’incredibile versatilità di quel piccolo oggetto di 133 grammi creato da questo istrionico geniaccio, la musica è entrata ancor più prepotente in quegli spazi vuoti fra un’idea e l’altra che molti osano chiamare “vita sociale”. A proposito, Steve, io non sono un folle anche se sono sulla buona strada, ma in compenso ho un enorme appetito. Se un giorno conoscessi una donna che si sacrificasse, per la scienza o per puro spirito pseudo-pionieristico, e mi regalasse un bimbo, lo chiamerei come te. Non importa dove lo abbia acquistato. Davvero.

La mia vita (a-)sociale scorre come un piccolo ruscello il cui unico scopo è alimentare l’affluentino dell’affluentone di un importante fiume lungo oltre 3.500 km del quale  pochissime persone conoscono il nome, persino tra gli indigeni.

Sono giunto così all’ennesima parentesi epistolare con la consapevolezza delle mie insicurezze e di scrivere cose nelle quali da lì a un mese, per esempio, non mi potrei mai più rispecchiare.

In psicologia credo che si parli di illusione dell’ego perfetto o so-un-cazzo qualcosa del genere: l’incredibile convinzione che ha l’uomo (perfino il più illuminato) nel credere di navigare nel mare della coerenza.

Ciò che scrivo non lascia il segno e nemmeno verrà ricordato, ma mi emoziona per trenta/quaranta secondi, a seconda del grado di sensibilità giornaliera, intento a dare un senso a quei cinque o dieci minuti vuoti della propria vuota vita.

Nella bi-centenaria porta del faro ho messo una scherzosa (?) targhetta recante scritta “Is There Anybody Out There?”, parafrasando il titolo di una celebre canzone dei Pink Floyd. In effetti dentro c’è … nessuno. Io sono nessuno e scrivo di tutto spargendolo a pezzettini per la rete. In questa maniera si ha la possibilità di essere elegantemente bugiardi, di celare i propri lati oscuri del quale inevitabilmente ci si vergogna e di scrivere a quel meraviglioso nulla che è diventato il mondo: Internet.

In tutto questo, cioè il nulla del quale ho goffamente parlato, la musica ha un ruolo fondamentale. Allora la letterina di oggi è dedicata a numero 5 canzoni scelte a caso da quell’oggetto di credo 61 per 114 millimetri del quale non ricordo il nome, quello dello Stefano di cui sopra per intenderci.

Quel che segue non è una classifica, non è una gara e men che meno dovreste cercare di trovare un qualsivoglia parallelismo perché non esiste e mai esisterà. E questa frase non l’ho realmente scritta io ma me l’ha dettata il mio inconscio musicale: se una canzone ti rimane in testa, un motivo c’è, al di la della sua eventuale bellezza, durata, epoca o cavolo di parametro si voglia utilizzare per ascoltarla o ricordarla.

UNO. Partiamo da Lack ofComprehension dei Death. Correva l’anno del signore 1991, io facevo i tre giorni per la naja in quel “pisciatoio d’Italia” che taluni chiamano La Spezia. Giravo con il mio walkman accennando un timido head banging e fra i pezzi che ascoltavo c’era sicuramente questo. Elegante pezzo death metal puro, strutturato in maniera perfetta. Suoni puliti e riff precisi. Ottima e casuale la presenza di Sean Reinert alla batteria.

DUE. Adesso faccio un passo indietro, e più precisamente al 1982. Non parlo dei mitici mondiali di calcio in Spagna, quanto di una canzone contenuta nell’album dei Clash Combat Rock. La canzone in questione è Straight to Hell e non è solo una canzone molto ben arrangiata con sonorità molto melanconiche, ma rappresenta 342 secondi di pace dei sensi. Quella canzone, per un motivo sul quale non scriverò nulla, rappresenta per me la fine di una fase dell’adolescenza. 

Ringrazierò sempre quel mio carissimo amico di scuola alberghiera (Marco) che mi iniziò al punk rock e m’indicò the right way per vivere questo genere. Il gruppo di cui stiamo parlando, The Clash, è una vera e propria leggenda della musica, costruita sul sapiente utilizzo di ben pochi accordi. Chapeau!

TRE. Un altro pezzo potrebbe essere Something'sGotten Hold of My Heart, cantato nel 1989 dal compianto Gene Pitney e da Marc Almond, due diverse generazioni di cantanti con, credo, circa vent’anni di scarto. Bellissima canzone interpretata e arrangiata in stile Sixties oltre due decenni dopo. Pitney ha un’estensione vocale eccezionale, e nell’insieme l’esecuzione da studio è splendida.

QUATTRO. Viene poi il momento dei miei amatissimi The Chemical Brothers, che nel 1999 escono con un album sorprendente e  quasi irripetibile: Surrender. Di questo splendido lavoro in studio molte persone ricordano una manciata di pezzi (tra tutti, Hey Boy Hey Girl) ma uno passa quasi inosservato ed è probabilmente il più cazzuto: The Sunshine Underground. Le percussioni sono una prerogativa di molti pezzi del duo inglese e mai come in questa canzone (così come in It Began in Afrika) questa particolarità sonora diventa potenza.

CINQUE. ’39, dall’album A Night at the Opera dei Queen. Anno 1975. Canzone alla quale sono legatissimo per motivi personali e perché cantata da quello che io definisco “mio zio Brian”, ma anche perché, insieme ad almeno altre venti songs, costituisce un incredibile sottobosco musicale della mitica band inglese ingiustamente ricordata solo per alcune canzoni simbolo, indubbiamente bellissime, ma che rappresentano solo un lato dei Queen. Sarebbe come ricordare una bella donna solo per la bellezza dei suoi occhi o del suo fondoschiena, quando magari possiede un sorriso meraviglioso, oppure un senso dell’umorismo pazzesco o dei fianchi tanto imperfetti quanto invitanti. Ai non conoscitori dei Queen, raccomando l’ascolto degli album Sheer Hearth Attack, Queen e Queen II per scoprire qualcosina di tanto inaspettato quanto piacevole.

SEI. contento, Andrew? Probabilmente no, ma è tempo di ritornare al molo e rientrare nel faro.

05 febbraio 2013

Lettera numero tredic-i: Manie,amicizie e amori perduti...


Manie, amicizie e amori perduti…

Le persone si distinguono per tutta una serie di cazzate che normalmente si manifestano con la frase «Sono una persona particolare», oppure «Sono fondamentalmente buona ma ho un carattere difficile».
Parlo di cazzate, ma se volete chiamiamole più o meno inutili assurdità rituali. Allora, sveglia alle 5:03 e, come ogni volta che mi metto in viaggio, bacio la sciarpa della Samp appesa sul letto del guardiano: il mio letto. Quando mi sveglio dopo una nottata alcolica grido solo “Olè!”

Gabbiani, pensieri erotici, lieve nausea, fantasie della giornata che mi tende le braccia, mentre la schiuma in faccia mi dà il senso della banale vita quotidiana. O forse no. Sono schiavo della mia vita sociale, oggi. Si parte.

Ore 5:21, arriva Andrew (non may73 ma Chesterton, come il famoso poeta inglese) con la barchetta numero tre della capitaneria (Z. Jones all’anagrafe marittima, chissà perché). Sollevo lo sguardo e lo saluto con il mio sorriso smagliante modello due per occasioni informali. Dopo il panda o il calamaro come livello di inespressività a livello mondiale penso di occupare una delle prime posizioni. A quest’ora persino Andrew C.  riesce a non parlare di fica.
Il secondo rituale della giornata consta nell’inserire la mano in tasca fingendo di cercare qualcosa per poi toccare tre volte il testicolo sinistro. La cabala celata di un individuo insospettabilmente scaramantico.
Sbarco sul moletto di Arbroath e in dieci minuti a piedi sono già in stazione, lì dove ritirai i bagagli tre mesi or sono. All’edicola scatta l’acquisto compulsivo di tre articoli scelti con un criterio assolutamente collaudato: un quotidiano che mi omogeneizza al resto della Scozia, una rivista trendy per alleggerire, e una tremendamente culturale ed eccezionalmente settoriale così da pietrificare sul posto chiunque si azzardi a formulare ipotesi su di me. Non li aprirò mai, non tutti perlomeno.

Anche se mi ero affrancato dalla schiavitù dei giudizi altrui, qualche residuo purtroppo mi è rimasto; ma è tipico degli ex tossici essere ancora un po’ “robbosi” dopo l’uscita dal tunnel.

Appena arriva il trenino alla volta di Dundee, salgo e occupo sempre un posto a destra in un sedile che non sarà mai il primo o il secondo e men che meno quello di centro. Subito dopo, lascio il posto occupato dai miei bagagli e faccio un giretto per almeno due vagoni (trattasi di treno piccolo, arrivo ai tre vagoni per i treni di lunga percorrenza) e verifico la fauna locale con le rispettive abitudini: lo scaccolatore, l’indifferente, l’arrivato, l’ansioso, e il dio dello scazzo in terra, per esempio.
Taglio gli scompartimenti come il coltello caldo rompe il burro stemperato, utilizzando i miei due occhi, dei quali uno pigro, per raccogliere quanti più dettagli possibili.

Sulle persone faccio film, organizzo feste dell’immaginazione e intrattengo rapporti che vanno ben al di là dei singoli tratti di viaggio condivisi. Magari vacanze insieme o perfino nozze.

Il treno corre nelle campagne sorprendentemente scozzesi, ed è un piacere per gli occhi tutto questo verde intervallato mestamente da alcune sobrie fattorie. Mi tocco spesso il naso non perché io sia un bugiardo ma perché quando sono emozionato i miei terminali nervosi fibrillano proprio in quella zona. Se un malato di narcolessia sollecitato si addormenta di colpo, io potrei avere la nasolessia.
Di questo parlavo. Di una serie incredibile e concatenata di rituali e assurdità che più o meno consapevolmente creiamo nella nostra testolina più o meno bacata fingendo di essere tutti unici e speciali. Più o meno.
Ognuno è perfetto. Siamo tutti parte di un magma, e oggi mi sento come un lapillo appena schizzato via da un rovente foro, magari in un vulcano dell’Oceano Pacifico. Il faro mi voleva far diventare pazzo ed io ho preso il mio laptop e il mio trenino e vado a passeggiare lontano.

Il mio itinerario è scelto con un criterio bizzarro che richiama la ritualità tipica di alcuni serial killer quando designano il proprio agnello sacrificale. Cerco un qualche riferimento ovunque, ad esempio nel titolo di un articolo di giornale, e vado nel primo bar che riporta una similarità con qualcosa che mi ha suscitato interesse. Una volta lì consumo, osservo le persone, scrivo, e ogni tanto lancio sguardi fintamente interessati o apprensivi verso le persone che mi incrociano. Ne raccolgo il feedback e questo mi serve ad alimentare fantasticherie. Peoplespotting? Se non esiste, lo invento io.
Dopo un’intera giornata dedicata ai miei tic e alle mie piccole preoccupanti inutili manie, constatato in effetti per l’ennesima volta di essere soli su questo viaggio chiamato esistenza,  è l’ora di rientrare a casa e finalmente respirare.

Gli schemi sono saltati e sono riuscito a sbucciare la cipolla che mi contiene sino al nucleo; adesso sono libero dalla maledizione che mi porto dietro da un evento traumatico del quale probabilmente non ricordo nulla. Sulla strada del ritorno, mi sento svuotato completamento da quel fottutissimo strato di convinzioni e convenzioni che ci impanano malamente come quando si usa un pangrattato intriso (scorrettamente) di uovo sbattuto. Adesso sono me stesso o per meglio dire “è emerso un io “ al quale troppo spesso non ricorriamo per avere chissà quali presunte sicurezze. Il mio ricordo va ai miei genitori adottivi e mi immedesimo in tutti coloro che hanno perso qualcuno di caro o rinunciato a qualcosa di davvero importante come l’amore. Tremendamente importanti e incredibilmente irrinunciabili sono certe cose, che usiamo per non accendere l’interruttore della tristezza incondizionata. Chiuso il laptop, raccolgo le mie miserie e sfodero  una delle mie immancabili Bic portate con me dall’Italia.  Posiziono un foglio di block notes proprio in corrispondenza della mia mano sinistra come se, da mancino, volessi utilizzare quella famosa immancabile Bic per scrivere.

All’improvviso, su quel frontespizio color bianco panna, compare quanto segue:

Dedicato a tutti. A tutti perché questo è il quantitativo sul totale di quelli che possono dire di aver sofferto per la scomparsa di qualcuno o la fine di un sentimento.  Un carissimo amico di lunga data mi disse in due fasi durate un ventennio che 1. La morte fa parte della vita e 2. Rassegnati al fatto che l’uomo è una creatura sola a differenza di altre entità vegetali o animali come ad esempio le formiche. Ebbene, nonostante questo, pur ammettendo alcuni aspetti direi perfino biologici, non mi stanco mai di scrivere a questa persona «Sei speciale» oppure «Ti voglio bene». Non  posso immaginare una vita senza punti di riferimento, siano essi fari, amici o ahimè famigliari, e se questa fosse una mera illusione dettata dal nostro cuore allora così sia.  Non sentire questa persona per mesi o addirittura anni come è successo davvero, ha fatto morire un piccolo pezzo di me, e se lui lo sapesse probabilmente si comporterebbe o si sarebbe comportato in maniera differente. Passiamo la vita a detestare un genitore o a rimarcare il torto subito da un fratello ma se questo dovesse mancare recupereremmo immediatamente qualcosa dal libro del nostro passato. Ho amato due donne e quel sentimento adesso è come un bicchiere d’acqua gettato nel mare. A differenza del “tutto” della legge della fisica, l’amore perduto non si trasforma ma in compenso ti cambia. Non si recrimina e non si piange su latte versato ma che imperdonabile spreco di amore per un mondo e per quelle persone che di amore ne avrebbero tanto bisogno. Una di queste donne è ancora tremendamente importante per me e Dio solo sa quanto anche nel mio bel faro l’avrei continuata ad amare, ma non esiste unilateralità in queste cose. Lei ed io abbiamo due linguaggi diversi e sono inconciliabili purtroppo ed è grazie a questo dolore che forse scrivo. Lo stesso concetto che ho di questi incredibili sentimenti come l’amicizia o la capacità di amare prevede un’invisibile quadricromia di elementi magici che alla fine sono in grado di coprire tutte le sfumature delle emozioni delle quali ci nutriamo per vivere, appunto.

Vedi, amico mio, il tuo illuminismo se così posso definirlo, è concettualmente solido ma stride con noi stessi e anche con quello che il tuo cuore ti dice in una lingua che oramai magari snobbi. Non ci si può riempire la vita d’impegni per soffocare questo linguaggio. Siamo soli per natura in questo gioco della vita? Va bene, ma io gioco a fare la formica.

29 gennaio 2013

Lettera numero dodic-i: Cenerentola, nel mio faro, pressappoco verso l'ora del tè...


Cenerentola, nel mio faro, pressappoco verso l’ora del tè…
Benjamin mi fissa da circa dieci minuti. Contraccambio il suo sguardo con grande ammirazione e un pizzico di orgoglio. Penso che per avere quasi 166 anni è davvero molto in forma. Mi ricordo che lo vidi un giorno attraverso lo schermo del mio vecchio laptop, oramai trasformato in rifiuto pericoloso nella discarica di qualche paese povero, o forse no.

Abitavo ancora in quel di Firenze con la mia ex ex compagna, figlia di imprenditori di alimenti surgelati, ma questa è un’altra storia. Ebbene potevano essere più o meno le stesse ore di adesso, 4:50 PM, e nel meraviglioso capoluogo toscano avrei bevuto un ottimo caffè con la mia immancabile Bialetti da quattro porzioni caricata al 75% con acqua.
Lo avrei fatto, quel caffè così profumato e aromatico, se il Sig. Lucchi postino di 52 anni in forza da oltre 30 alle gloriose Poste Italiane non avesse suonato tre colpetti di citofono proprio all’interno 11 della bellissima via Porta Rossa, non lontano dall’omonimo hotel. Il signor Francesco (postino Lucchi per l’appunto) non poteva sapere che in quella busta proveniente da Walla Walla vicino a Seattle (stato di Washington, USA) dormiva, forse sballottato dal viaggio aereo, un piccolo signore molto famoso di 306 anni la cui unica responsabilità era quella di essere stato uno dei più grandi presidenti degli Stati Uniti d’America. Benjamin Franklin, per la cronaca. Potrebbe essere utile, ai fini della comprensione di questo breve e inutile racconto, sapere che stiamo parlando del primo francobollo degli USA intesi come nazione unitaria per quanto questo aggettivo strida con le reali differenze culturali tuttora esistenti tra uno Stato e l’altro nel suolo che Colombo considerava “le lontane Indie”.

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Il valore da 5 centesimi color marrone chiaro con quattro margini quasi perfetti: bellissimo! Dimenticai il caffè e mi misi in adorazione del mio primo “Franklin” importante in collezione.

Correva il primo luglio 1847 e il mio piccolo presidente venne alla luce sotto forma di francobollo. Il catalogo di francobolli americani più completo al mondo, lo Scott, lo definisce il “#1”. Ebbene i non collezionisti non possono sapere comunque che l’immediato successore filatelico del 5 centesimi Franklin, il “10 centesimi di Washington”, oltre ad essere più raro del precedente, sarebbe comunque diventato il pezzo simbolo per i filatelisti statunitensi con rammarico per il primo sfortunato Benjamin. A questa coppia di antichità aggiungo a titolo puramente informativo, come riscossa personale se vogliamo, un inarrivabile “one cent del 1° luglio1851 color azzurro/blu”, sempre raffigurante il buon Beniamino Franklin, la cui quotazione attuale per un bell’esemplare nuovo e perfettamente conservato accarezza l’interessante cifra di 225.000,00 euro. (No, lettori non collezionisti, non mi sono addormentato sulla tastiera, e men che meno ho un principio di Parkinson).
Torniamo però a oggi, all’ora del tè quasi scoccata qui nel mio faro Bell Rock, e al mio Scott #1 che non distoglie lo sguardo da me. Non può non venirmi in mente un parallelismo con il basket NBA di circa un ventennio fa, quando un signore di 196 cm del North Carolina, tale Michael Jordan, con le sue prodezze nella sua plurititolata squadra (i Chicago Bulls), oscurava altri giganti del basket mondiale, Scottie “Maurice” Pippen su tutti, il quale, pur essendo un giocatore eccezionale, non suscita ancor oggi grandi ricordi e gli onori che merita se non tra gli addetti ai lavori e ambienti della pallacanestro che lo hanno strameritatamente inserito fra i 50 giocatori più forti di tutti i tempi.

A te che sei la mia Cenerentola del mio personalissimo olimpo filatelico, caro Scott #1, dedico tutta l’attenzione e l’amore che meriti a dispetto del tuo più celebre vicino di banco, mia altra gioia da contemplazione per le serate nelle quali l’umanità si tinge di grigio e io non posso che ricorrere alla misantropia filatelica.
Essendo bastardo nell’animo, come dicevano spesso molti miei ex ed ex ex colleghi, non scriverò che soddisfazioni dia lo studio accurato di questi piccolissimi pezzettini di carta con le loro differenze più o meno sostanziali: il colore, l’eventuale dentellatura, la tipologia di stampa, o il tipo di carta utilizzata. Parliamo poi di griglie? E che dire dei multicolorati e variegati timbri utilizzati dagli Stati Uniti per molti anni durante il periodo che colleziono: 1845-1899. Splendidi e rari timbri blu o verdi con forme che richiamano moderni tatuaggi tribali, fiori, o scritte che indicano un utilizzo particolare, come ad esempio quelle missive spedite su quei fantastici e romantici battelli a vapore sul Mississippi che ci riportano alle avventure del Tom Sawyer di Mark Twain.

Ecco, non scriverò niente di tutto questo perché forse correrei il rischio che qualcuno si avvicini a questa branca del collezionismo e la cosa mi infastidirebbe parecchio. Il collezionismo è per pochi e sapere di essere uno psicotico raccoglitore di feticci più o meno giustificabili dà un senso sociale alle mie turbe più o meno celabili.
Quando ero chef di cucina guadagnavo molto e avevo certamente maggiori possibilità, ma non potevo dedicare il tempo che meritano ad alcune passioni, non ultima questa. Adesso, con pochi soldi, molte idee confuse e la irrequieta calma del mar della Scozia, posso leggere moltissimo, stabilire se i miei oltre 125 pezzi del 3 centesimi Washington del 1857 appartengano o meno a una delle oltre 59 tipologie differenti, e soprattutto permettermi di essere me stesso: Cenerentola fra i pochi guardiani dei fari sparsi qua e là per il globo.

Sono le diciassette appena scoccate, e io sto educando il mio palato e la mia mente alla ritualità tipica del tè, non fosse altro per ricambiare l’ospitalità degli Highlander.

Distolgo lo sguardo dal mio “Cenerentola Scott #1”, chiudendo con cura il mio raccoglitore tedesco rilegato color vinaccia da sessantaquattro facciate, appositamente acquistato per contenere quelli che io definisco con affetto “i francobolli del Far West”.

Spero che tutte le Cenerentola del mondo gioiscano nel sapere che per quanto siano o si sentano sfortunate, c’è sempre qualcuno che le apprezza anche se non gli viene detto, ed è il proprio status di “sfigate” che le rende in fondo così speciali. Apro l’oblò tondo di fronte al quadro comandi, mi gusto il tè ad occhi chiusi e mi faccio suggerire dal mare la prossima storia, consapevole e forte della mia speciale inadeguatezza.