Foschia, pesci, Africa, sonno,
nausea, fantasia…
Sono
seduto in un piccolo bar affollato in totale solitudine grazie a Steve Jobs. Da
quando per caso scoprì l’incredibile versatilità di quel piccolo oggetto di 133
grammi creato da questo istrionico geniaccio, la musica è entrata ancor più
prepotente in quegli spazi vuoti fra un’idea e l’altra che molti osano chiamare
“vita sociale”. A proposito, Steve, io non sono un folle anche se sono sulla
buona strada, ma in compenso ho un enorme appetito. Se un giorno conoscessi una
donna che si sacrificasse, per la scienza o per puro spirito
pseudo-pionieristico, e mi regalasse un bimbo, lo chiamerei come te. Non
importa dove lo abbia acquistato. Davvero.
La mia
vita (a-)sociale scorre come un piccolo ruscello il cui unico scopo è
alimentare l’affluentino dell’affluentone di un importante fiume lungo oltre
3.500 km del quale pochissime persone
conoscono il nome, persino tra gli indigeni.
Sono
giunto così all’ennesima parentesi epistolare con la consapevolezza delle mie
insicurezze e di scrivere cose nelle quali da lì a un mese, per esempio, non mi
potrei mai più rispecchiare.
In
psicologia credo che si parli di illusione dell’ego perfetto o so-un-cazzo
qualcosa del genere: l’incredibile convinzione che ha l’uomo (perfino il più
illuminato) nel credere di navigare nel mare della coerenza.
Ciò che
scrivo non lascia il segno e nemmeno verrà ricordato, ma mi emoziona per
trenta/quaranta secondi, a seconda del grado di sensibilità giornaliera,
intento a dare un senso a quei cinque o dieci minuti vuoti della propria vuota
vita.
Nella
bi-centenaria porta del faro ho messo una scherzosa (?) targhetta recante
scritta “Is There Anybody Out There?”, parafrasando il titolo di una celebre canzone
dei Pink Floyd. In effetti dentro c’è … nessuno. Io sono nessuno e scrivo di
tutto spargendolo a pezzettini per la rete. In questa maniera si ha la
possibilità di essere elegantemente bugiardi, di celare i propri lati oscuri
del quale inevitabilmente ci si vergogna e di scrivere a quel meraviglioso
nulla che è diventato il mondo: Internet.
In tutto
questo, cioè il nulla del quale ho goffamente parlato, la musica ha un ruolo
fondamentale. Allora la letterina di oggi è dedicata a numero 5 canzoni scelte
a caso da quell’oggetto di credo 61 per 114 millimetri del quale non ricordo il
nome, quello dello Stefano di cui sopra per intenderci.
Quel che
segue non è una classifica, non è una gara e men che meno dovreste cercare di
trovare un qualsivoglia parallelismo perché non esiste e mai esisterà. E questa
frase non l’ho realmente scritta io ma me l’ha dettata il mio inconscio
musicale: se una canzone ti rimane in testa, un motivo c’è, al di la della sua
eventuale bellezza, durata, epoca o cavolo di parametro si voglia utilizzare
per ascoltarla o ricordarla.
UNO. Partiamo da Lack ofComprehension dei Death. Correva l’anno del signore 1991, io facevo i tre
giorni per la naja in quel “pisciatoio d’Italia” che taluni chiamano La Spezia.
Giravo con il mio walkman accennando un timido head banging e fra i pezzi che
ascoltavo c’era sicuramente questo. Elegante pezzo death metal puro,
strutturato in maniera perfetta. Suoni puliti e riff precisi. Ottima e casuale
la presenza di Sean Reinert alla batteria.
DUE. Adesso faccio un passo indietro, e
più precisamente al 1982. Non parlo dei mitici mondiali di calcio in Spagna,
quanto di una canzone contenuta nell’album dei Clash Combat Rock. La
canzone in questione è Straight to Hell e non è solo una canzone molto
ben arrangiata con sonorità molto melanconiche, ma rappresenta 342 secondi di
pace dei sensi. Quella canzone, per un motivo sul quale non scriverò nulla,
rappresenta per me la fine di una fase dell’adolescenza.
Ringrazierò
sempre quel mio carissimo amico di scuola alberghiera (Marco) che mi iniziò al
punk rock e m’indicò the right way per vivere questo genere. Il gruppo
di cui stiamo parlando, The Clash, è una vera e propria leggenda della musica,
costruita sul sapiente utilizzo di ben pochi accordi. Chapeau!
TRE. Un altro pezzo potrebbe essere Something'sGotten Hold of My Heart, cantato nel 1989 dal compianto Gene Pitney e da
Marc Almond, due diverse generazioni di cantanti con, credo, circa vent’anni di
scarto. Bellissima canzone interpretata e arrangiata in stile Sixties oltre due
decenni dopo. Pitney ha un’estensione vocale eccezionale, e nell’insieme
l’esecuzione da studio è splendida.
QUATTRO. Viene poi il momento dei miei
amatissimi The Chemical Brothers, che nel 1999 escono con un album sorprendente
e quasi irripetibile: Surrender.
Di questo splendido lavoro in studio molte persone ricordano una manciata di
pezzi (tra tutti, Hey Boy Hey Girl) ma uno passa quasi inosservato ed è
probabilmente il più cazzuto: The Sunshine Underground. Le percussioni
sono una prerogativa di molti pezzi del duo inglese e mai come in questa
canzone (così come in It Began in Afrika) questa particolarità sonora
diventa potenza.
CINQUE. ’39, dall’album A Night
at the Opera dei Queen. Anno 1975. Canzone alla quale sono legatissimo per
motivi personali e perché cantata da quello che io definisco “mio zio Brian”,
ma anche perché, insieme ad almeno altre venti songs, costituisce un
incredibile sottobosco musicale della mitica band inglese ingiustamente
ricordata solo per alcune canzoni simbolo, indubbiamente bellissime, ma che
rappresentano solo un lato dei Queen. Sarebbe come ricordare una bella donna
solo per la bellezza dei suoi occhi o del suo fondoschiena, quando magari
possiede un sorriso meraviglioso, oppure un senso dell’umorismo pazzesco o dei
fianchi tanto imperfetti quanto invitanti. Ai non conoscitori dei Queen,
raccomando l’ascolto degli album Sheer Hearth Attack, Queen e Queen
II per scoprire qualcosina di tanto inaspettato quanto piacevole.
SEI. contento, Andrew? Probabilmente no,
ma è tempo di ritornare al molo e rientrare nel faro.