21 febbraio 2013

Lettera numero 14: Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia…


Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia…
Sono seduto in un piccolo bar affollato in totale solitudine grazie a Steve Jobs. Da quando per caso scoprì l’incredibile versatilità di quel piccolo oggetto di 133 grammi creato da questo istrionico geniaccio, la musica è entrata ancor più prepotente in quegli spazi vuoti fra un’idea e l’altra che molti osano chiamare “vita sociale”. A proposito, Steve, io non sono un folle anche se sono sulla buona strada, ma in compenso ho un enorme appetito. Se un giorno conoscessi una donna che si sacrificasse, per la scienza o per puro spirito pseudo-pionieristico, e mi regalasse un bimbo, lo chiamerei come te. Non importa dove lo abbia acquistato. Davvero.

La mia vita (a-)sociale scorre come un piccolo ruscello il cui unico scopo è alimentare l’affluentino dell’affluentone di un importante fiume lungo oltre 3.500 km del quale  pochissime persone conoscono il nome, persino tra gli indigeni.

Sono giunto così all’ennesima parentesi epistolare con la consapevolezza delle mie insicurezze e di scrivere cose nelle quali da lì a un mese, per esempio, non mi potrei mai più rispecchiare.

In psicologia credo che si parli di illusione dell’ego perfetto o so-un-cazzo qualcosa del genere: l’incredibile convinzione che ha l’uomo (perfino il più illuminato) nel credere di navigare nel mare della coerenza.

Ciò che scrivo non lascia il segno e nemmeno verrà ricordato, ma mi emoziona per trenta/quaranta secondi, a seconda del grado di sensibilità giornaliera, intento a dare un senso a quei cinque o dieci minuti vuoti della propria vuota vita.

Nella bi-centenaria porta del faro ho messo una scherzosa (?) targhetta recante scritta “Is There Anybody Out There?”, parafrasando il titolo di una celebre canzone dei Pink Floyd. In effetti dentro c’è … nessuno. Io sono nessuno e scrivo di tutto spargendolo a pezzettini per la rete. In questa maniera si ha la possibilità di essere elegantemente bugiardi, di celare i propri lati oscuri del quale inevitabilmente ci si vergogna e di scrivere a quel meraviglioso nulla che è diventato il mondo: Internet.

In tutto questo, cioè il nulla del quale ho goffamente parlato, la musica ha un ruolo fondamentale. Allora la letterina di oggi è dedicata a numero 5 canzoni scelte a caso da quell’oggetto di credo 61 per 114 millimetri del quale non ricordo il nome, quello dello Stefano di cui sopra per intenderci.

Quel che segue non è una classifica, non è una gara e men che meno dovreste cercare di trovare un qualsivoglia parallelismo perché non esiste e mai esisterà. E questa frase non l’ho realmente scritta io ma me l’ha dettata il mio inconscio musicale: se una canzone ti rimane in testa, un motivo c’è, al di la della sua eventuale bellezza, durata, epoca o cavolo di parametro si voglia utilizzare per ascoltarla o ricordarla.

UNO. Partiamo da Lack ofComprehension dei Death. Correva l’anno del signore 1991, io facevo i tre giorni per la naja in quel “pisciatoio d’Italia” che taluni chiamano La Spezia. Giravo con il mio walkman accennando un timido head banging e fra i pezzi che ascoltavo c’era sicuramente questo. Elegante pezzo death metal puro, strutturato in maniera perfetta. Suoni puliti e riff precisi. Ottima e casuale la presenza di Sean Reinert alla batteria.

DUE. Adesso faccio un passo indietro, e più precisamente al 1982. Non parlo dei mitici mondiali di calcio in Spagna, quanto di una canzone contenuta nell’album dei Clash Combat Rock. La canzone in questione è Straight to Hell e non è solo una canzone molto ben arrangiata con sonorità molto melanconiche, ma rappresenta 342 secondi di pace dei sensi. Quella canzone, per un motivo sul quale non scriverò nulla, rappresenta per me la fine di una fase dell’adolescenza. 

Ringrazierò sempre quel mio carissimo amico di scuola alberghiera (Marco) che mi iniziò al punk rock e m’indicò the right way per vivere questo genere. Il gruppo di cui stiamo parlando, The Clash, è una vera e propria leggenda della musica, costruita sul sapiente utilizzo di ben pochi accordi. Chapeau!

TRE. Un altro pezzo potrebbe essere Something'sGotten Hold of My Heart, cantato nel 1989 dal compianto Gene Pitney e da Marc Almond, due diverse generazioni di cantanti con, credo, circa vent’anni di scarto. Bellissima canzone interpretata e arrangiata in stile Sixties oltre due decenni dopo. Pitney ha un’estensione vocale eccezionale, e nell’insieme l’esecuzione da studio è splendida.

QUATTRO. Viene poi il momento dei miei amatissimi The Chemical Brothers, che nel 1999 escono con un album sorprendente e  quasi irripetibile: Surrender. Di questo splendido lavoro in studio molte persone ricordano una manciata di pezzi (tra tutti, Hey Boy Hey Girl) ma uno passa quasi inosservato ed è probabilmente il più cazzuto: The Sunshine Underground. Le percussioni sono una prerogativa di molti pezzi del duo inglese e mai come in questa canzone (così come in It Began in Afrika) questa particolarità sonora diventa potenza.

CINQUE. ’39, dall’album A Night at the Opera dei Queen. Anno 1975. Canzone alla quale sono legatissimo per motivi personali e perché cantata da quello che io definisco “mio zio Brian”, ma anche perché, insieme ad almeno altre venti songs, costituisce un incredibile sottobosco musicale della mitica band inglese ingiustamente ricordata solo per alcune canzoni simbolo, indubbiamente bellissime, ma che rappresentano solo un lato dei Queen. Sarebbe come ricordare una bella donna solo per la bellezza dei suoi occhi o del suo fondoschiena, quando magari possiede un sorriso meraviglioso, oppure un senso dell’umorismo pazzesco o dei fianchi tanto imperfetti quanto invitanti. Ai non conoscitori dei Queen, raccomando l’ascolto degli album Sheer Hearth Attack, Queen e Queen II per scoprire qualcosina di tanto inaspettato quanto piacevole.

SEI. contento, Andrew? Probabilmente no, ma è tempo di ritornare al molo e rientrare nel faro.

05 febbraio 2013

Lettera numero tredic-i: Manie,amicizie e amori perduti...


Manie, amicizie e amori perduti…

Le persone si distinguono per tutta una serie di cazzate che normalmente si manifestano con la frase «Sono una persona particolare», oppure «Sono fondamentalmente buona ma ho un carattere difficile».
Parlo di cazzate, ma se volete chiamiamole più o meno inutili assurdità rituali. Allora, sveglia alle 5:03 e, come ogni volta che mi metto in viaggio, bacio la sciarpa della Samp appesa sul letto del guardiano: il mio letto. Quando mi sveglio dopo una nottata alcolica grido solo “Olè!”

Gabbiani, pensieri erotici, lieve nausea, fantasie della giornata che mi tende le braccia, mentre la schiuma in faccia mi dà il senso della banale vita quotidiana. O forse no. Sono schiavo della mia vita sociale, oggi. Si parte.

Ore 5:21, arriva Andrew (non may73 ma Chesterton, come il famoso poeta inglese) con la barchetta numero tre della capitaneria (Z. Jones all’anagrafe marittima, chissà perché). Sollevo lo sguardo e lo saluto con il mio sorriso smagliante modello due per occasioni informali. Dopo il panda o il calamaro come livello di inespressività a livello mondiale penso di occupare una delle prime posizioni. A quest’ora persino Andrew C.  riesce a non parlare di fica.
Il secondo rituale della giornata consta nell’inserire la mano in tasca fingendo di cercare qualcosa per poi toccare tre volte il testicolo sinistro. La cabala celata di un individuo insospettabilmente scaramantico.
Sbarco sul moletto di Arbroath e in dieci minuti a piedi sono già in stazione, lì dove ritirai i bagagli tre mesi or sono. All’edicola scatta l’acquisto compulsivo di tre articoli scelti con un criterio assolutamente collaudato: un quotidiano che mi omogeneizza al resto della Scozia, una rivista trendy per alleggerire, e una tremendamente culturale ed eccezionalmente settoriale così da pietrificare sul posto chiunque si azzardi a formulare ipotesi su di me. Non li aprirò mai, non tutti perlomeno.

Anche se mi ero affrancato dalla schiavitù dei giudizi altrui, qualche residuo purtroppo mi è rimasto; ma è tipico degli ex tossici essere ancora un po’ “robbosi” dopo l’uscita dal tunnel.

Appena arriva il trenino alla volta di Dundee, salgo e occupo sempre un posto a destra in un sedile che non sarà mai il primo o il secondo e men che meno quello di centro. Subito dopo, lascio il posto occupato dai miei bagagli e faccio un giretto per almeno due vagoni (trattasi di treno piccolo, arrivo ai tre vagoni per i treni di lunga percorrenza) e verifico la fauna locale con le rispettive abitudini: lo scaccolatore, l’indifferente, l’arrivato, l’ansioso, e il dio dello scazzo in terra, per esempio.
Taglio gli scompartimenti come il coltello caldo rompe il burro stemperato, utilizzando i miei due occhi, dei quali uno pigro, per raccogliere quanti più dettagli possibili.

Sulle persone faccio film, organizzo feste dell’immaginazione e intrattengo rapporti che vanno ben al di là dei singoli tratti di viaggio condivisi. Magari vacanze insieme o perfino nozze.

Il treno corre nelle campagne sorprendentemente scozzesi, ed è un piacere per gli occhi tutto questo verde intervallato mestamente da alcune sobrie fattorie. Mi tocco spesso il naso non perché io sia un bugiardo ma perché quando sono emozionato i miei terminali nervosi fibrillano proprio in quella zona. Se un malato di narcolessia sollecitato si addormenta di colpo, io potrei avere la nasolessia.
Di questo parlavo. Di una serie incredibile e concatenata di rituali e assurdità che più o meno consapevolmente creiamo nella nostra testolina più o meno bacata fingendo di essere tutti unici e speciali. Più o meno.
Ognuno è perfetto. Siamo tutti parte di un magma, e oggi mi sento come un lapillo appena schizzato via da un rovente foro, magari in un vulcano dell’Oceano Pacifico. Il faro mi voleva far diventare pazzo ed io ho preso il mio laptop e il mio trenino e vado a passeggiare lontano.

Il mio itinerario è scelto con un criterio bizzarro che richiama la ritualità tipica di alcuni serial killer quando designano il proprio agnello sacrificale. Cerco un qualche riferimento ovunque, ad esempio nel titolo di un articolo di giornale, e vado nel primo bar che riporta una similarità con qualcosa che mi ha suscitato interesse. Una volta lì consumo, osservo le persone, scrivo, e ogni tanto lancio sguardi fintamente interessati o apprensivi verso le persone che mi incrociano. Ne raccolgo il feedback e questo mi serve ad alimentare fantasticherie. Peoplespotting? Se non esiste, lo invento io.
Dopo un’intera giornata dedicata ai miei tic e alle mie piccole preoccupanti inutili manie, constatato in effetti per l’ennesima volta di essere soli su questo viaggio chiamato esistenza,  è l’ora di rientrare a casa e finalmente respirare.

Gli schemi sono saltati e sono riuscito a sbucciare la cipolla che mi contiene sino al nucleo; adesso sono libero dalla maledizione che mi porto dietro da un evento traumatico del quale probabilmente non ricordo nulla. Sulla strada del ritorno, mi sento svuotato completamento da quel fottutissimo strato di convinzioni e convenzioni che ci impanano malamente come quando si usa un pangrattato intriso (scorrettamente) di uovo sbattuto. Adesso sono me stesso o per meglio dire “è emerso un io “ al quale troppo spesso non ricorriamo per avere chissà quali presunte sicurezze. Il mio ricordo va ai miei genitori adottivi e mi immedesimo in tutti coloro che hanno perso qualcuno di caro o rinunciato a qualcosa di davvero importante come l’amore. Tremendamente importanti e incredibilmente irrinunciabili sono certe cose, che usiamo per non accendere l’interruttore della tristezza incondizionata. Chiuso il laptop, raccolgo le mie miserie e sfodero  una delle mie immancabili Bic portate con me dall’Italia.  Posiziono un foglio di block notes proprio in corrispondenza della mia mano sinistra come se, da mancino, volessi utilizzare quella famosa immancabile Bic per scrivere.

All’improvviso, su quel frontespizio color bianco panna, compare quanto segue:

Dedicato a tutti. A tutti perché questo è il quantitativo sul totale di quelli che possono dire di aver sofferto per la scomparsa di qualcuno o la fine di un sentimento.  Un carissimo amico di lunga data mi disse in due fasi durate un ventennio che 1. La morte fa parte della vita e 2. Rassegnati al fatto che l’uomo è una creatura sola a differenza di altre entità vegetali o animali come ad esempio le formiche. Ebbene, nonostante questo, pur ammettendo alcuni aspetti direi perfino biologici, non mi stanco mai di scrivere a questa persona «Sei speciale» oppure «Ti voglio bene». Non  posso immaginare una vita senza punti di riferimento, siano essi fari, amici o ahimè famigliari, e se questa fosse una mera illusione dettata dal nostro cuore allora così sia.  Non sentire questa persona per mesi o addirittura anni come è successo davvero, ha fatto morire un piccolo pezzo di me, e se lui lo sapesse probabilmente si comporterebbe o si sarebbe comportato in maniera differente. Passiamo la vita a detestare un genitore o a rimarcare il torto subito da un fratello ma se questo dovesse mancare recupereremmo immediatamente qualcosa dal libro del nostro passato. Ho amato due donne e quel sentimento adesso è come un bicchiere d’acqua gettato nel mare. A differenza del “tutto” della legge della fisica, l’amore perduto non si trasforma ma in compenso ti cambia. Non si recrimina e non si piange su latte versato ma che imperdonabile spreco di amore per un mondo e per quelle persone che di amore ne avrebbero tanto bisogno. Una di queste donne è ancora tremendamente importante per me e Dio solo sa quanto anche nel mio bel faro l’avrei continuata ad amare, ma non esiste unilateralità in queste cose. Lei ed io abbiamo due linguaggi diversi e sono inconciliabili purtroppo ed è grazie a questo dolore che forse scrivo. Lo stesso concetto che ho di questi incredibili sentimenti come l’amicizia o la capacità di amare prevede un’invisibile quadricromia di elementi magici che alla fine sono in grado di coprire tutte le sfumature delle emozioni delle quali ci nutriamo per vivere, appunto.

Vedi, amico mio, il tuo illuminismo se così posso definirlo, è concettualmente solido ma stride con noi stessi e anche con quello che il tuo cuore ti dice in una lingua che oramai magari snobbi. Non ci si può riempire la vita d’impegni per soffocare questo linguaggio. Siamo soli per natura in questo gioco della vita? Va bene, ma io gioco a fare la formica.