29 marzo 2013

Lettera Sedic-i: Every Little Thing She Does Is Magic



 
Un’anziana signora che viveva vicino a me a Firenze mi diceva sempre che per far bene qualsiasi cosa bisogna semplicemente farla.

Nelle ultime settimane ho a disposizione una piccola barchetta con cui potermi avvicinare al molo 2 e sentirmi diversamente prigioniero. Approfittando di questa possibilità, ho deciso di dedicare un’ora della mia vita a correre, per scaricare quella strana sensazione che provi quando hai un peso sullo stomaco ma non riesci a identificarlo.

Dicevo della signora Albina, l’anziana fiorentina. Per circa dieci lunghi e insieme fulminei anni mi sono ricordato di quella massima, tentando di darle una connotazione logica o una specie di senso; ma soltanto oggi, alle ore 7:11 del mattino, esausto per la strada percorsa a grandi falcate, credo di averla finalmente capita. O perlomeno le ho attribuito un significato.

Una volta vidi un programma nel quale uno scrittore di grande fama indicava l’esistenza di un vademecum  su come scrivere bene, e dopo averlo cercato per curiosità iniziai a leggerlo. Le due cose che più mi rimasero impresse erano anche le più scontate, se si vuole. La prima diceva che per scrivere bene bisogna leggere parecchio, e la seconda che quando si decide di sporcare un pezzo di carta con qualche idea o sensazione, bisogna farlo senza pensare di doverlo per forza fare bene. Alla fine del piccolo manuale delle giovani marmotte scrittrici, era indicato un sito internet cui inviare eventualmente domande e richieste di consigli sullo scrivere. Ebbene, chiunque avesse letto il manuale e poi scritto qualche domandina al sito indicato, avrebbe automaticamente messo in pratica quanto detto dal famoso scrittore. Semplice, no?

Le falcate improvvisamente tendono ad avere una cadenza minore, eppure divengono più pesanti e impietose nei confronti del mio povero, sollecitato corpo.

La mente ritorna in automatico alle interminabili giornate di cucina quando con l’intero staff eravamo intenti a sperimentare impiattamenti (1) e sapori a dir poco bizzarri. In quei casi , per quanto ci venissero in soccorso le rispettive doti culinarie e il proprio gusto, ci si rendeva conto che le migliorie più incisive, determinanti e durature della cucina nascevano per caso e mai attraverso una programmazione. Dovrei citare per dovere il melograno mangiato per caso dopo una fine ricotta di capra, o il caffè bevuto con birra artigianale al grano saraceno, ma non lo farò.

Credo che la chiave di tutto sia il fare le cose per il piacere di farle e dunque mossi da quella splendida sensazione di sentirsi gratificati anche dopo un turno di miniera a scavare con le unghie sulla roccia. Passione? Mah. Forse.

Piove, Scozia ladra! Chi non corre probabilmente non sa che con la pioggia battente corri con uno stimolo maggiore, ti sale l’adrenalina ed emerge quella sensazione tipica dei fondisti: “the loneliness of the long distance runner” (3).

Sembrerà strano ma penso che chi possiede una dote pensa automaticamente che tutte le persone la abbiano, ma così non è, e per di più non si acquista al piccolo mercato del mercoledì o al grande del sabato.

Queste persone non sanno di essere speciali perché danno per acquisito il fatto che tutti in fondo abbiano con le dovute differenze, la stessa qualità che in realtà è tutt’altro che comune.

Mentre corro, sentendomi davvero stanco e con l’acido lattico che appicca il fuoco alle mie gambe, sommo gli eventi della mia strampalata esistenza e mi accorgo di interpretarne la metafora stessa. Corro consapevole di voler fare quello che faccio ma senza avere una destinazione.

Difficile spiegarlo se non lo si prova. Nobili sentimenti e comportamenti istintivi danno vita a un puzzle comportamentale e sociale al quale talvolta preferirei non partecipare, e il solo fatto di pensarlo modifica il quadro stesso delle cose, obbligandomi a correre.

La mia è una rivolta, una intifada comportamentale. La mia ma anche la TUA, caro signore che mi guardi passare con malocchio mentre leggi il “Dundee Mirror” dalla vetrata del salotto di casa. E anche la VOSTRA, di tutti coloro che sono alla ricerca di quell’elemento stabilizzante. Credevo di averlo trovato con la fede, ma quello è probabilmente solo il faro del guardiano del faro. Al di là del raggio d’azione di quella luce proiettata in un mare impietoso, non trovo luce in alcuni meandri di me stesso.

Albina era del 1921, una persona semplice e passionale; concreta e lapidaria nel dare giudizi. Ma la sua non era malignità, bensì consapevolezza del proprio ruolo sociale di oracolo di una piccola via dello splendido centro storico fiorentino.

Mi ricordo un giorno di primavera (era aprile) segnato da un insolito caldo umido e perfino fastidioso, mentre aspettavo la mia compagna in uscita dall’azienda di surgelati del suo paparino presso cui io sovente prestavo volontariato 24/7. Dovevamo uscire per un aperitivo, una tornata di shopping, e una cena che avrebbe coronato quello che credo fosse il nostro terzo anno insieme. Sudavo e pensavo alla scena iniziale di Apocalypse Now, mentre sentendomi toccare alle spalle vidi stagliarsi Albina con in mano un oggetto fasciato con l’alluminio alimentare. Mi disse pressappoco: “Oh grullo, aspetti la Nina senza niente in mano? Prendi questo e digli che l’ha fatta l’Albina per lei e che me l’hai chiesto te”.

Rimasi inebetito e ringraziai la signora quando era già a una ragguardevole distanza, a prova di udito bionico. Aprii l’involucro e vi trovai una specie di pane simile al buonissimo “casatiello” (2) napoletano che si fa proprio per il periodo pasquale. Era una sorta di torta pane dolce, o casatiello dolce, che poi ho scoperto la famiglia di Albina preparava da generazioni e generazioni. Eccezionale da accompagnare al vin santo sostituendo gli oramai cari ed eccellenti cantucci proprio a Pasqua. Che dire? Grazie.

Ci sono persone magiche nel mondo e noi “normali” alla ricerca del senso della vita poche volte ce ne rendiamo conto. Albina era magica e aveva capito che quel piccolo gesto avrebbe riempito il cuore di gioia a qualcuno (Nina) più di qualsiasi shopping o cena nel fottutissimo ristorante stellato. Io neanche ci avrei pensato in quel periodo a creare una delle più belle giornate della mia vita facendo felice la persona per me più importante , perché sono fondamentalmente uno stronzo egoista, ed è per questo che spesso corro forte e solitario senza sapere dove sto veramente andando.

A questo punto della storia la domanda che mi rimane è: riuscirò mai a ritornare al molo 2 di corsa?

 
NOTE:
1. IMPIATTAMENTI: in cucina molti addetti chiamano in questo modo le presentazioni dei piatti delle varie portate.
2. CASATIELLO: Preparazione campana  (ed in particolare napoletana) tipica del periodo pasquale. Si potrebbe considerare il casatiello una sorta di pane speciale ripieno di uova, pancetta, formaggio o salame. La particolarità è che le uova sono messe con il guscio.
3. LONELINESS OF THE LONG DISTANCE RUNNER: canzone dell'album "Somwhere In Time" degli Iron Maiden (1986). 

08 marzo 2013

Lettera numero 15: Gocce di luce


Lettera numero 15: Gocce di luce

 Nottata da battaglia navale stasera visto che non so giocare a sudoku. Qualche sera fa ho conosciuto una simpatica scozzese di nome Jenny ed è il mio primo approccio a un essere sostanzialmente di sesso opposto dei miei ultimi sei mesi. Mi correggo: è il suo primo approccio a un alieno sostanzialmente uomo.
Mi ha anche teneramente detto che, pur essendo brutto, la eccitava il fatto che io fossi italiano. La cosa è finita teneramente con un nulla di fatto ma in compenso Jenny mi ha ampiamente dimostrato che la sua tenuta alcolica è ben superiore alla mia. La tentazione di mostrarle la mia collezione di francobolli mi è venuta, ma francamente non mi sento pronto. Non voglio coinvolgermi nemmeno sessualmente, mi sento turbato e fragile da quando sono partito dal suolo italico per le Highlands.
Da quel fatidico ottobre 2012 moltissime cose sono cambiate radicalmente nella mia vita, non ultimo il modo di relazionarmi alle donne. Il mio  faro potrebbe forse essere un monastero marino, perché no.
Dopo una mareggiata emotiva, la spiaggia dove sono solito installare le mie emozioni è strana: profuma di resurrezione. Adesso la fenice che è in me si scrolla la cenere e spiega le ali in attesa di spiccare un volo fantasmagorico, audaci planate e appostamenti degni di un re che scorge l’orizzonte, forte delle sue tenute probabilmente volute da un gioco del destino più che da una divinità.

Amministro la mia solitudine concedendomi ampi spazi di lettura, esposto al vento dei gradini esterni del Bell Rock; e non è lontano il ricordo della rilettura di un libro di un famoso economista indiano, Amartya Sen, considerato da una certa fascia di studenti universitari sinistroidi il non plus ultra in fatto di interpretazione ed elaborazione delle teorie economiche. Per i quotidiani che hanno l’arte di semplificare e, ahimè, sovente fuorviare le persone con titoli ingannevoli, Amartya Sen è “l’economista dal volto umano”. Io non ne ho una definizione perché sono un perfetto ignorante, ma queste etichette mi fanno sentire limitato.
La scelta di combattere le disuguaglianze economiche globali attraverso lo studio dei fenomeni legati a questa scienza, nasce nel piccolo Amartya, bimbo festante sul prato di casa sua, dalla visione terribile di un assassinio per motivi religiosi proprio sul cancello di casa nella regione del Bengala. Questo è quello che lui racconta con tono sommesso ma assolutamente viscerale, deciso e scientifico. Il suo linguaggio è dolce anche quando parla di stagflazione.

La vita delle persone prende pieghe inaspettate per fatti magari non così traumatici ma altrettanto incisivi. Un’accetta colpisce un albero senza magari che il robusto vegetale se ne accorga, tuttavia nella sua solida corteccia resterà inciso per sempre un segno. Le cellule probabilmente si immoleranno per ricordare che qualcosa ha colpito il bersaglio. Un monito? Un autografo del destino? Più semplicemente, il gesto poco rispettoso di uno stolto che passava in quel bosco.
Quando il vento si placa e il reverbero del sole nell’acqua fa scintillare il gigante che mi circonda, riesco a non pensare a nulla per almeno un minuto e mi godo ad occhi chiusi questo caldo inaspettato, talmente umido da farmi gocciolare la fronte e le palpebre chiuse lentamente. Questa terapia solare la chiamo gocce di luce, e mi farebbe piacere ospitare nel faro un poeta perché possa utilizzare per descrivere questa sensazione parole che non ho, perso come sono, nella mie inutili e solitarie elucubrazioni.
La vita ti fa scegliere in continuazione e adesso scelgo di rientrare in casa perché inizio a sentire freddo. Mi chiudo e quasi istintivamente mi dirigo verso il cucinino, intento a prepararmi una merendina.

Amartya Sen sostiene che«l’economia è la scienza della scelta». Io sostengo, senza un Nobel per l’Economia in tasca, che vivo alcune scelte in maniera traumatica e questo è un male. Proprio ieri, o forse ieri l’altro, ho avuto una sorte di visione durante le gocce di luce. Mi è apparsa una splendida fata bianca molto in stile “Lord of the Rings”, che avvicinandosi a me ha intriso un piccolo fardello di seta bianca sulla mia fronte asciugandone l’intera superficie. Poi mi ha parlato con fare fiabesco e strizzato perfettamente le gocce di luce in un piccolo boccettino di vetro il cui effetto al sole creava i colori dell’arcobaleno: «Queste saranno la tua luce nei momenti più bui».
Adesso, può anche darsi che abbia smaltito l’ultimo frammento di ubriacatura della bevuta con Jenny, ma credere in questa assurdità rende la mia giornata decisamente migliore. Il faro mi sta mettendo davanti ad alcune decisioni; il faro stesso è motivo di scelta. Il mio faro è magico, mi basta  nominarlo e subito mi arriva un sms di Jenny: “What are you doing?”

Le mie due teste mi danno impulsi diversi. Una stimolazione puramente fallica e l’altra filosofica o meditativa. Mando un messaggio al marito di Rachel che sta giocando a bersi la paga al pub del porto per dirgli se è disponibile a fare da taxi per un… collega?

Non risponde, è certamente ubriaco, sono costretto a chiamarlo. Peter ubriaco saluta felicissimo, ma mi prende per sua moglie. Alla sua volgarissima avance sessuale telefonica rispondo mestamente con l’invito a tranquillizzarsi, perché, al di la della simpatia reciproca, tra me e lui non può esserci nulla che vada oltre l’amicizia.

Scoppia in una fragorosa risata e poi acconsente alla mia richiesta raccomandandomi di non aver pietà. Bene: una testa ha prevalso sull’altra. Chiamo Jenny e la invito a farsi trovare al moletto 2 entro venti minuti con molta birra possibilmente non già in corpo.
Lo scotch lo metto io: Bowmore Casket Strenght vintage 1989. Un whisky full proof che emana torba, legno, salmastro e fiori a 53 gradi. Lei in realtà non apprezza e magari ripiegherà sulla vodka alla frutta che uso normalmente per fare dolci speziati tipo le albicocche al pepe di Szichuan o altre vaccate simili.

Jenny emozionatissima per il faro e non certo per me approfitta di alcuni giorni di riposo dall’ufficio notarile presso cui lavora da oramai sette anni. Il primo di questi giorni lo dedica a me e credo voglia dare tutta se stessa per farmelo capire.
Le ho promesso che se l’indomani pomeriggio il tempo sarà clemente, le regalerò delle gocce di luce e lei è curiosissima e mi riempie di domande.

Non riesco più a scrivere né a pensare. Faccio una doccia rapidissima, preparo uno stuzzichino veloce da servire all’aperitivo, e tolgo la maschera da guardiano del faro almeno per stanotte. Il cielo stellato mi segnala che nulla andrà storto nemmeno domani e a me non resta che dare l’ultimo segnale in capitaneria.

Il mio faro non diventerà un monastero marino, perlomeno non questa notte.