30 aprile 2013

Lettera numero diciott-o: Improbabili stelle, percorsi deviati...


Prima di addormentarsi, chiunque chiude i propri occhi, il cuore rallenta ma la nostra anima spesso non riesce a inviare lo stesso comando alla mente.
A partire dal momento in cui solleviamo il dorso dal letto succederanno almeno CINQUECENTO cose più o meno piccole, ingurgiteremo circa DUEMILA kilo-calorie, saremo disgustati da almeno TRE servizi del tg, pronunceremo almeno UNA decina di parolacce di gravità differente per motivi spesso futili, berremo forse CINQUE bevande eccitanti, faremo o invieremo almeno QUINDICI fra telefonate o messaggi e TUTTO questo prima di riappoggiare la schiena sullo stesso materasso. O forse nemmeno il proprio.

Ad ascoltare alcune statistiche sui quotidiani o alcuni servizi televisivi dei telegiornali, questi snocciolati sono grossomodo i “numeri” di una persona media nei ventisette paesi più industrializzati. Deduco che l’essere al di sotto o al di sopra di queste cifre fa del soggetto un “non normale”. Questa fascia abbraccia probabilmente una larga schiera di persone che variano dai clochard ai depressi ai disoccupati ai tossicodipendenti o ad alcuni artisti.

Il punto è che non esiste un punto e la parola normalità può essere vista ed interpretata in maniera assai differente. In compenso mentre tentiamo di immagazzinare, gestire, accarezzare una infinità di dati o statistiche siamo costretti a generalizzare su qualsiasi argomento e tutto per semplificare. Sembrerebbe una cosa da nulla ma questa è una devastazione per la nostra capacità di autocritica che ci induce a stravolgere totalmente il significato delle cose. Con questo tipo di logica si arriva a chiamare un SUV “Captiva”, e lo spot dovrebbe suggerire libertà di movimento. Ma “captivus” non significava “prigioniero”? Beh, è una storia inutile.
Dopo una lunga manovalanza specializzata spesa in decine di cucine di ogni dimensione e tipologia si arriva ad esasperare il livello qualitativo del piatto dimenticando totalmente la cosa più importante: il grado di soddisfazione dell’ospite. Ripeto: “ospite” e non cliente.

Un vecchio chef ubriacone, blasfemo, stronzo, maschilista e razzista dal quale c’era solo da imparare m’insegnò una grande lezione di vita. Mi chiamò a rapporto mentre annunciava la sua nona o decima uscita dalla cucina per prendere un caffè al bar. Ero terrorizzato all’idea di subire come punizione per una delle mie decine di stronzate quotidiane la pulizia di una vasca di calamari gelo che mi procuravano (superati i 30 kg) una forte irritazione alle dita delle mie povere mani.
Mi mise una mano sulla spalla e pensai a una tale anomalia da raffigurarmelo persino gay. Mi disse di seguirlo nella sala proprio dietro l’angolo dov’era posizionata la nostra macchina da caffè, una Cimbali 4 bracci dei primi anni Ottanta: un caffé ottimo. Credevo si mettesse a fare due caffé rimproverandomi per qualcosa, e invece accadde l’impossibile. M’invitò educatamente a guardare la sala mentre le decine di ospiti erano intenti a pranzare, al tempo in cui le famiglie ancora potevano permettersi di uscire la domenica per un pranzo fuori porta. Quindi mi apostrofò chiamandomi “Sergej”, il nome del lavapiatti ucraino che ci supportava in cucina.

“Se tu guardi ‘sti stronzi in faccia, ti accorgerai di com’è andato il tuo lavoro. Le espressioni della faccia non ingannano mai, e due sono le cose che gli uomini e le donne che vanno a mangiare fuori non ti perdonano: gli uomini vogliono qualcuno che cucini come la loro mamma, e le donne odiano il freddo in sala. Perciò, se questo accade, una volta tornati a casa non scopano e ti fanno una pubblicità di merda”
Passarono alcuni secondi nei quali lo chef mi fissava malamente e riprese

 “Che cazzo ci fai qui? Va’ a pulire i calamari con Andrew!”
Evitai di correggerlo sebbene avesse confuso i due nomi, così come eviterò di scrivere il seguito del suo commento rivolto al cielo, alle donne e al Milan, sua squadra del cuore. Ne fui turbato.

Entrando in cucina gli altri tre colleghi/boccia mi guardavano come se avessi tradito qualcosa o qualcuno, e fu l’ennesima giornata nera di lavoro. Ero una recluta e così dovevo morire, nessun privilegio, testa bassa e mani rosse.

Adesso ritorno al faro e sono passati più di 18 anni da quei momenti assurdi. Statisticamente non sono un clochard, un depresso, un disoccupato, un tossicodipendente o un artista, ma sono un guardiano del faro. Se dovessi dirla tutta, il mio è un lavoro di rappresentanza per onorare il faro moderno più antico del mondo. Se un operaio di catena di montaggio sapesse che ogni giorno faccio nulla e guadagno poco meno di loro s’incazzerebbe parecchio. Lo capirei, ma io sono in prigione e come ogni carcerato che si rispetti faccio pesi, corro nel mio cortile chiamato Arbroath durante l’ora d’aria, e immagino.
In più studio, colleziono francobolli e mi disfo dei miei migliaia di doppioni vendendoli online. Anche questo è un modo per costruire un ponte con il resto del mondo. Di guadagnare non me ne frega niente: quello che mi dà piacere è ricevere il ringraziamento di persone sparse per il globo. Considero queste cose come il mio modo di colorare la mia vita, e se ne fossi in grado lo farei sul serio.

Certe volte  infatti, vorrei essere proprio un artista, un valente pittore, e omaggiare il mondo di opere da un faro, oppure opere con fari. Penso ai tempi delle scuole medie quando la mia compagna di banco era una dolcissima Daniela del quale non ricordo esattamente il cognome anche se sono quasi sicuro iniziasse con la lettera “M”. Daniela disegnava e dipingeva come una vera artista: Daniela ERA un’artista! Lo dico considerando il significato più alto della parola. Anzi, Daniela lo è ancora adesso una pittrice: organizza mostre ed è molto apprezzata a livello regionale.
Mentre io stupravo i fogli da disegno con la delicatezza di un panzer classe   “KING VI”, Daniela li valorizzava. Prendeva delle matite colorate, dei pastelli o dei pennelli e fotocopiava angoli di paradiso. La severa professoressa, credo quasi sessantenne,  passava tra i banchi e, arrivata all’altezza del nostro, guardava estasiata Daniela che ammetteva candidamente: “Non riesco a fare la sfumatura tra l’arcobaleno e la cascata”.

Lo sguardo della navigata professoressa poi sfiorava me, con disgusto e compassione inseriti fra una ruga e l’altra di quel volto che mi ricordava un moai. Un giorno mi chiese: “Andrew, vai così male in tutte le materie?”
Mi ha fatto sentire a dir poco inadeguato e fuori posto, ma sono certo che non lo ha fatto con cattiveria. Io ammiravo Daniela ma non volevo dirle che avrei voluto disegnare bene anche solo la metà di quanto lo faceva lei.

Adesso tuttavia, dopo 27 anni circa, ho voglia di rispondere alla oramai vecchia Isabella…

Cara Isabella C., adesso lei dovrebbe avere circa ottant’anni ed io sfioro la metà di questo traguardo. Inutile dirle che le auguro  sinceramente salute e gioia sino ai cento. Si ricorda di me? Sono Andrew, il compagno di banco della mistica Daniela M. quella che lei stessa definiva “la miglior allieva di sempre” nella sua già ultra-trentennale carriera da professoressa.  Insomma, ricordandosi di Daniela M. dovrebbe pensare allo sfigato che le sedeva accanto e che “zappava” sui fogli da disegno. Nell’anno del signore 2013 scrivo da un computer incastonato nell’improbabile scrivania di un faro. Sono passati più di 24 anni da quando ero un suo pessimo alunno.
Sono stato comunque un bravo ragazzo (forse), ho seguito un percorso particolare che mi ha portato a diventato il guardiano di un faro, ma solo dopo una carriera ventennale da cuoco in giro per il mondo. Sui piatti so scrivere, decorare e colorare, ma non ho mai imparato a disegnare su un foglio e ho conservato la mia pessima grafia. Non essendo un “Artista”, le statistiche dicono di me che sono solo una persona normale, ma a me va bene così. Sono sicuro che lei è una bravissima persona ma nel dire alcune cose ad alcuni suoi studenti feriva nel profondo. Io ero certamente tra queste persone ma non serbo alcun rancore, anzi le scrivo che nonostante tutto le ho sempre voluto bene perché era una docente molto preparata che aveva passione e la sapeva cogliere e apprezzare nei suoi studenti migliori. L’arte migliora il mondo e lo rende più bello, purtroppo non ho la giusta cultura e sensibilità per poterla capire. Ecco, tutto qui. Se avessi il suo indirizzo le manderei una cartolina di Arbroath con un bel francobollo di un faro.

Le auguro il meglio Isabella C.

Andrew

2 commenti:

  1. Mi sono svegliata molto presto, è una cosa che quando capita mi piace molto, e quando succede due cose amo fare in questo caso;mentre fuori è ancora buio e regna un mistico silenzio, una è scrivere aprendo il mio cuore il più possibile e riversare tutte quelle famose " parole non dette", oppure leggere,leggere qualcosa che apra altrettanto il cuore, quelle che io chiamo le "parole che vorresti sentirti dire" o le parole che chiamo "brodo per l'anima" come intitola un famoso libro,so sempre che se entro in questo blog,le trovo entrambe.
    Un abbraccio :-)
    p.s il tuo è decisamente per me, un blog da leggere di notte,nel silenzio e nella calma, per un attiamo si può immaginare di essere nel faro,sentire il mare, e tutta la pace che lo circonda.

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  2. Ciao Carolina
    con il lavoro in trasferta tendo a scrivere meno,ma mi trovo molto in sintonia con quello che dici sul mattino presto che spesso, per me, è notte fonda.

    Sei un'ottima benzina per la motivazione ;)

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