Immagini confuse di ieri e di domani
Ci sono ricordi confusi che spesso ti lacerano
quasi inconsapevolmente. Non parlo di grandi traumi diretti o di incredibili
shock subiti, ma di cose altrettanto tragiche che s’insinuano nella nostra mente.
Qui ad Arbroath il mio faro è sotto una pioggia
battente da almeno tre giorni e le giornate del timido caldo primaverile delle
settimane passate sembrano essere quasi un fatto storico, lontano.
Due sere fa, lo scroscio continuo dell’acqua e le
improvvise folate di vento hanno provocato uno strano effetto sonoro, un rumore
simile a un urlo umano, e la mia mente ha riacceso una lampadina su un fatto
triste e penoso accadutomi oltre 15 anni fa, quando vivevo in una casa del
centro storico genovese alla quale ero molto affezionato: la mia “casetta”.
In quel periodo, tentavo goffamente di
assomigliare a tutti i costi a un poeta maledetto o a una versione annacquata e
sfigata di qualche rockstar dannata di fine anni ’60-primi ‘70. Oltre a non essere
felice, terminavo spesso le mie serate vomitando nel mio bel cesso di casa o in
prossimità del portone, sino al punto di giacere privo di sensi sul mio vomito
per almeno un’ora se non più.
La sera in questione non ero completamente
ubriaco, anzi ero soltanto simpaticamente brillo e terribilmente stanco.
Arrivai a nanna dopo una doccia faticosa e mentre ero a letto in piena notte,
sentii quello che poteva sembrare un urlo femminile. Aprii gli occhi e percepii
ancora un po’ di rumori indefinibili ma tanta era la stanchezza che decisi di
continuare nervosamente a dormire.
Il mattino dopo, sulla via del lavoro, vidi la
polizia e l’ambulanza portare via il cadavere di una mia vicina di casa,
tragicamente assassinata dal suo rude compagno tossicomane con cui coltivava un
amore malato da qualche anno.
Mi sentii talmente a disagio da dovermi sedere su
una panchina: non avevo mai provato una sensazione di amaro in bocca e stomaco
torto così intensa come quel mattino. La giornata lavorativa scorse via lenta e
inesorabile mentre io non potevo fare a meno di pensare a quell’urlo che ero
quasi convinto di avere sentito.
Con ogni probabilità la mia mente decise di
rimuovere progressivamente il brutto ricordo di quel giorno, ma adesso che mi
trovo a oltre 3 mila km e, credo, 750 settimane di distanza, il destino piovoso
ha riacceso la luce su quel ripostiglio mentale che utilizziamo per sbarazzarci
di inutili o dolorosi fardelli psichici.
Tutto questo accade mentre ho scoperto di avere
maturato quasi quindici giorni di ferie e che la capitaneria mi spedirà via dal
faro con un sonoro calcio nel sedere se non mi organizzo in fretta per levarmi
di torno queste due settimane.
Spegnendo nuovamente la luce di quello stanzino
della mia mente, e non avendo parenti prossimi in Italia, ho deciso di andare a
visitare Parigi. Mi sto già programmando il viaggio, ma non do niente per
scontato fino a che non avrò realmente prenotato i biglietti aerei.
Sono emozionato all’idea di interrompere il mio
esilio nei mari di Scozia per andare in una delle più grandi città europee, e
in un certo senso mi sento confuso ma pronto a lasciarmi tutto alle spalle.
Avevo una mezza idea di chiedere a Jenny se avesse voluto venire con me, ma una
vocina mi ha lasciato intendere che non sarebbe stata una buona idea. Spesso mi
sento solo e forse ho solamente bisogno di un surrogato di affetto al quale
nemmeno le piccole cose importanti e i rituali di cui mi circondo possono sopperire.
A Parigi, se davvero sarà quella la mia meta, intendo
camminare moltissimo e visitare l’impossibile. Per almeno due settimane mi
sentirò un altro uomo, o forse tornerò ad essere quell’uomo che non c’è più.
Peggio ancora: sarò un uomo nuovo che non c’è mai stato e magari tornerò ad
essere un ragazzino con l’argento vivo addosso.
A Parigi amerò la vita e scriverò, lontano dalle
urla, lontano dalle onde gelide dei mari del nord, e vivrò nella fantascienza. Mi
aprirò il cuore davanti a Notre Dame e ammirerò da un angolo defilato gli
sguardi degli studenti che disegnano la splendida facciata gotica. Mi stupirò
nel vedere i volti anestetizzati alla bellezza di chi vive in certe piazze
meravigliose del centro, e capiterò volontariamente in zone di Parigi che nulla
hanno a che vedere con le mete turistiche, fingendomi un indigeno.
Entrerò in uno di quei negozietti che esplodono di
ninnoli irresistibili solo per il gusto di non spendere un centesimo e userò il
mio potente naso da ex chef di cucina per annusare alberi, fiori e ciascuna
delle altre miriadi di cose che si potrebbero trovare ovunque, per carpirne
eventuali differenze di odore.
Mi siederò su una panchina in una larga via alberata
con antichi e maestosi palazzi per chiudere gli occhi e ascoltare al buio che
rumore fa Parigi. Mi godrò ogni singolo istante di persona lontana dal mondo
salmastro nel quale mi sono immerso sette mesi or sono.
Accarezzerò un cielo diverso a ogni occasione
nella quale prenderò fiato, o scruterò a lungo un formidabile cartellone
pubblicitario di qualche stilista francese.
Sarò libero di non leggere libri, schiavo delle
emozioni del momento e nessuno potrà pensarmi come il guardiano di un piccolo
tratto di mare scozzese.
Andrò alla deriva di me stesso, ma stavolta senza
svenire nel mio vomito; mi sforzerò di non dare per forza un senso alle cose.
Scoprirò forse me stesso o imparerò ad ascoltare ciò che è altro da me. Non
farò a braccio di ferro con la coscienza e pregherò a testa in giù per una sera
intera. Alla fine, non ricorderò nulla
del viaggio, e non scriverò nulla di ciò che sarà stato. C’è ancora molto
spazio nella mia testa malconcia, le mie scarpe mature dovranno farne molta di
strada o parafrasando un modo di dire tipico degli addetti in cucina “devo mangiarne ancora molti di panini”.
In tasca non avrò molto ma sarà anche troppo.
Ora mi restano solo il fragore dell’acqua sul faro,
il ricordo di una primavera morta sul nascere, e una valigia da finire.
Allora, buone vacanze parigine!
RispondiEliminaE no, non svenire nel tuo vomito, i francesi sono gente raffinata, potrebbero risentirsi ;)
Un consiglio del quale farò tesoro joker ;)
RispondiEliminaLa cosa bella dei racconti è che per quanta fantasia una persona possa metterci ci sarà sempre dentro qualcosa di se stessi, e mi piace quel da tuoi racconti trapela,sebbene non possa sapere quale sia il confine fra la tua fantasia e la tua realtà, ma s'intuisce un animo molto bello.
RispondiEliminaUn saluto
Parigi val bene una lettera ;)
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